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Una torre per illuminarli, connetterli e salvarli. Sulla Luna

La proposta di Honeybee Robotics (Blue Origin) per il programma Artemis è una struttura alta 100 metri dotata di pannelli solari, fari e antenne per assicurare ai pellegrini selenici servizi (anche in emergenza)

DI EMILIO COZZI

La necessità è uno stimolante per l’ingegno umano.

In quest’ottica, lo spazio è uno degli ambiti più prolifici in cui escogitare le soluzioni migliori per la sopravvivenza.

Energia e connessione sono entrambe necessità umane: la prima è vincolata alle risorse, la seconda alla presenza di infrastrutture capaci di veicolare le informazioni. Saranno due tra gli elementi principali di una nuova epoca dell’esplorazione, quella sulla Luna. Un luogo – un mondo – sul quale si ha l’ambizione di restare, come recita il manifesto di intenti del programma Artemis.

Anche per questo la proposta dell’azienda Honeybee Robotics, sussidiaria di Blue Origin con sede in Colorado, desta sorpresa e meraviglia, come quando si esce dalla metro sulla 42a a Manhattan e ci si ritrova a Times Square.

L’idea è di costruire una torre sulla Luna, Lunarsaber, acronimo di “Lunar Utility Navigation with Advanced Remote Sensing and Autonomous Beaming for Energy Redistribution”. Se si escludono futuristici (e piuttosto ottimistici) disegni che immaginano una futura città selenica, l’esplorazione della superficie lunare è un concetto declinato per lo più in orizzontale, o verso il basso. Dopo lo sbarco e prima dell’ascesa per prendere la via del ritorno, ci si muoverà tra le dune per esplorare il suolo, si scenderà sul fondo buio dei crateri o, addirittura, nel budello di cunicoli lavici che potrebbero offrire riparo per insediamenti stabili.

 

Puntare in alto

Difficile che si guardi verso l’alto, in verticale; i ripari sono sempre intesi come capsule pressurizzate e igloo a un piano, quello del suolo. Lassù ci sono le stelle; persino la Terra, presenza magnifica, sarà bassa sull’orizzonte, dato che la destinazione sarà il Polo sud. E così pure il Sole.

È proprio dalla principale sorgente di energia che si parte, la luce da trasformare in elettricità.

Data la posizione geografica al Polo, i raggi solari arriveranno molto bassi e paralleli al suolo; significa che proietteranno ombre lunghissime. Per raccoglierli bisognerà salire. Per questo Honeybee Robotics sta progettando una struttura verticale alta 100 metri, sulla e attorno alla quale innestare pannelli solari e una serie di altri dispositivi che potranno aiutare il lavoro degli astronauti approfittando della quota sopraelevata.

Lunarsaber è un concentrato di ingegno e tecnologia. Andrebbe anzitutto notato che una struttura alta 100 metri non entrerebbe nemmeno nel più grande razzo al momento in progettazione, Starship di SpaceX. La soluzione, semplice nella sua genialità, si chiama Diablo (“Deployable Interlocking Actuated Bands for Linear Operations): in sistensi, la torre sarà spedita “arrotolata” su sé stessa come un nastro a spirale e, una volta posata nel punto prescelto, un meccanismo rotante la svilupperà in altezza.

Honeybee Robotics vanta una lunga storia nell’ambito dell’esplorazione spaziale (è stata fondata nel 1983), che di recente ha coinciso, dopo l’acquisizione nel 2022, con quella di Blue Origin, l’azienda spaziale di Jeff Bezos. Come dichiara la società sul proprio sito, elementi sviluppati e costruiti da Honeybee Robotics hanno volato o stanno operando un po’ ovunque, con particolare accento sui rover marziani Phoenix, Spirit e Opportunity, Curiosity e Perseverance. Si tratta in particolare di sistemi meccanici, che devono funzionare, muoversi, ruotare, in condizioni di vuoto pressoché assoluto, altissime escursioni termiche e differenze di temperatura anche drastiche a seconda dell’esposizione alla luce solare.

 

Fiat lux

Lunarsaber è stata selezionata dalla Darpa, l’agenzia americana per la Difesa, nell’ambito dell’iniziativa “10-Year Lunar Architecture (LunA-10) Capability Study”, deputata a sviluppare nuove soluzioni per l’esplorazione spaziale dei prossimi decenni. Non è un caso che la torre sia progettata per ospitare una serie indefinita di payload come antenne, luci, trasmittenti e camere.

Come sempre nello spazio, sarà la versatilità a fare la differenza.

La prima cosa che si pensa di piazzare sulla Luna sono i pannelli solari, appesi come vessilli o panni ad asciugare, con un meccanismo di rotazione per essere costantemente esposti e raccogliere ogni stilla di luce. In alternativa, il progetto prevede anche di ricoprire la colonna con gli stessi pannelli. Una volta “portata giù”, l’energia (la stima è di 100 kilowatt) soddisferà le esigenze degli insediamenti: illuminazione, dispositivi di riciclo di aria e acqua, esperimenti, ricarica dei veicoli. Anche dall’alto, sulla sommità, come un lampione, i fari alimentati da quegli stessi pannelli potranno creare un’oasi luminosa. Non è esclusa l’ipotesi di trasferire energia da una torre illuminata a un’altra in ombra, usando il laser per collegare luoghi diversi.

 

Le antenne, ponte e faro radio

Gli ingegneri sostengono che Lunarsaber potrà sorreggere una tonnellata di carico, per altri payload che possono trarre vantaggio da posizione e altezza. Gli esempi sono diversi: antenne e ponti radio potranno mantenere le comunicazioni con un orizzonte ampio, da una eventuale base ai suoi piedi agli astronauti che si sono allontanati anche diversi chilometri, agganciando i loro mezzi o, direttamente, le loro tute per uno scambio diretto di dati e voce. Da una stazione superficiale, l’area coperta da un segnale radio, considerati i rilievi, è di qualche centinaio di metri. Da 100 metri di altezza, secondo i calcoli degli ingegneri Honeybee, può invece arrivare fino a 37 chilometri. E anche inondare di luce e connessione il fondo dei crateri, dove si andranno a cercare acqua e risorse.

Il collegamento radio potrà anche essere uno dei nodi della rete di comunicazione con il Lunar Gateway, la stazione spaziale in orbita lunare, e con la Terra, per restare sempre in collegamento con le basi di coordinamento missione. Lì potrà rimbalzare il segnale di posizionamento, unito alle reti satellitari, che all’occorrenza potrà diventare un faro di emergenza. A tutto questo si aggiunge la possibilità di integrare telecamere e altri strumenti, radar o laser, per il monitoraggio della zona circostante e dell’area coperta da una visuale molto vantaggiosa.

Vishnu Sangiepalli, principal investigator di Lunarsaber, ha paragonato la torre a un coltellino svizzero: “È altamente adattabile e versatile, si può personalizzare, vicino alla base è dotata di connettori che consentono ai sistemi a terra di ricevere l’energia. Mettiamo il caso che il tuo rover si rompa e sia necessario un intervento di ricerca e soccorso: Lunarsaber usa le sue luci per illuminare anche i crateri più profondi e se non è raggiungibile tramite la sua rete locale, dispone di telecamere e Lidar (strumento laser, ndr) per aiutare a ristabilire la connessione. Ha la capacità di ricaricare il rover in modalità wireless utilizzando il suo raggio per il trasporto di energia”. Sono parole che confermano come sia via via più sensato immaginare il paesaggio lunare con un’impronta tecnologica umana, distinta da altissime torri, come lampioni che svettano sui giganteschi parcheggi terrestri, che oltre a illuminare funzioneranno da tramite: saranno i nodi di una rete che innerva lo sforzo umano, teso a rendere abitabile ciò che è ostile. Ancora una volta, sempre più lontano.



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