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G60, la costellazione internet cinese e l’astropolitica della connessione orbitale

Lanciati i primi dispositivi della Qianfan, “migliaia di vele” che prenderanno la via dell’orbita per dare a Pechino una rete globale sulla scia di Starlink.

DI EMILIO COZZI

Anche la Cina c’è. Pechino ha iniziato a costruire la propria costellazione G60, per la connessione satellitare. Più che una sfida a Starlink, è la necessità di tenerne il passo.

Il 6 agosto, alle 11:42 locali, il razzo Lunga Marcia 6A è decollato dal centro spaziale di Taiyuan e ha consegnato 18 satelliti di quella che, nell’imminente futuro, diventerà una mega costellazione di antenne: anche indicata come G60, si chiama Qianfan traducibile come “migliaia di vele”, per la precisione 14 migliaia, almeno secondo i piani.

Di fronte agli sforzi occidentali, la Cina non poteva stare a guardare. E a dire il vero le costellazioni per un servizio internet dall’orbita bassa in progettazione sono due. A esordire per prima è quella realizzata dalla Shanghai Spacecom Satellite Technology (Ssst), detta anche “Spacesail Constellation” (“Costellazione di vele spaziali”). Gli apparati decollati il 6 agosto costituiscono il batch inaugurale della prima generazione dei satelliti “spacesail” che, per citare l’agenzia stampa cinese Xinhua, “fornirà agli utenti globali servizi internet a banda larga ultra affidabili con bassa latenza e alta velocità”.

Il primo satellite G60 è uscito a dicembre 2023 dalla catena di montaggio di Gesi Aerospace Technology, nel distretto di Songjiang. Il programma è il frutto di un investimento del governo di Shanghai, insieme con l’Accademia delle Scienze cinese, in un distretto, quello del delta dello Yangtze, che punta a diventare il fulcro della tecnologia extra-atmosferica del Paese, con la produzione di satelliti, lanciatori, servizi e infrastrutture. Secondo le notizie diffuse in occasione della presentazione al pubblico della nuova fabbrica, nel corso del 2024 è previsto il lancio di 108 satelliti; una volta a regime, l’impianto sarà in grado di produrne trecento all’anno. È un inizio, ma per tenere testa a Starlink potrebbe non bastare.

 

La rincorsa a SpaceX

A cinque anni dall’inizio del dispiegamento della sua costellazione, la compagnia di Elon Musk ha messo in orbita oltre 6mila satelliti operativi (e ha permessi per arrivare fino a 42mila). Al ritmo dichiarato da Ssst occorrerebbero due decadi per arrivare a tanto. La strada è comunque segnata: l’altra costellazione cinese con gli stessi scopi è la Guowang (“rete nazionale”), sostenuta dal governo centrale e di proprietà di SatNet, una società statale. Sarà composta da 13mila satelliti.  I destini di Guowang, però, non sono ancora noti.

In un’interessante analisi dello scorso anno sulle intenzioni cinesi, il think tank britannico Royal United Services Institute (Rusi) ha evidenziato diversi aspetti che rendono conveniente questa mossa: anzitutto, è il momento giusto per mettersi in moto, per non lasciar “scappare” Starlink, mentre il mercato è ancora contendibile e le orbite relativamente sgombre. Dopo quella statunitense (e aspettando Kuiper di Amazon, che conterà altri 3.200 apparati), l’unica altra grande costellazione operativa è OneWeb di Eutelsat, di recente salvata dalla bancarotta per intervento anche del governo inglese, che conta però “solo” 650 satelliti.

 

Un interesse globale

Quell’offerta agli “utenti globali” proietta la Cina in un mercato nel quale non esistono confini fisici. I satelliti in orbita polare possono coprire, virtualmente, qualsiasi luogo del mondo e le onde elettromagnetiche arrivano senza dogane. Difficile dire se il servizio di connessione cinese, qualora più economico, possa avere successo in Paesi occidentali. Di certo, avrà un peso politico nella definizione degli equilibri globali o nell’esito di conflitti dove ora Starlink è l’attore dominante. Facile cogliere il riferimento alla guerra in Ucraina, dove Musk – un privato – si è fatto in un certo senso arbitro di una contesa, decidendo di offrire la connessione all’esercito resistente ma rifiutandone l’utilizzo per supportare i droni diretti a colpire in Crimea. La vicinanza fra la Russia e la Cina è ribadita dalle cronache degli anni recenti e non è da escludere che una connessione satellitare ad alta velocità offerta a Mosca nel Donbass possa cambiare gli esiti sul campo di battaglia, sebbene oggi sia impossibile verificare la solidità dell’ipotesi.

Più facile considerare il possesso di un’infrastruttura orbitale così pervasiva come uno strumento di influenza in regioni che dipendono dalla Cina. Come ha notato l’analisi già richiamata di Juliana Suess per il Rusi, Starlink è globale ma non è utilizzato ovunque. Diversi stati africani, magari già in affari con Pechino, attendono il servizio della Repubblica popolare per offrire una connessione ai propri cittadini e alle istituzioni. Soprattutto in aree prive di antenne terrestri e in zone remote, scarsamente servite. Diverse nazioni, nel continente africano e nel sud est asiatico, sono ancora disconnesse per non aver approvato norme che regolino il servizio. È un contesto in cui la Cina può avere gioco più facile grazie alla lunga leva degli investimenti effettuati in Paesi ricchi di materie prime ma ancora poveri, poverissimi. Una logica che in molti, in occidente, considerano neo-colonialista, ma che sta rivelandosi efficace per Pechino.

 

Difesa e aggressione

L’importanza geopolitica di possedere una costellazione internet satellitare si rivela in tutta la sua evidenza, tanto sul piano economico quanto su quello strategico. E su più versanti: anzitutto quello interno, per un mercato la cui domanda è destinata ad aumentare e la cui rilevanza è peculiare. La situazione in Ucraina dimostra quanto sia vitale disporre di reti resilienti in caso di attacchi alle infrastrutture.

Non è un caso se Taiwan, che con la Cina a un passo considera il pericolo di un’invasione sempre più concreto, stia progettando una propria costellazione satellitare. Così come non è un mistero che Iris2, la rete finanziata dalla Commissione europea (ma i cui destini sono ancora incerti), sia un asset pensato per rendere l’Unione indipendente da infrastrutture di terzi (in primis americane). In questo caso pesano le tensioni sul fronte orientale, da dove il conflitto esploso con l’invasione dell’Ucraina potrebbe estendersi ai Paesi Nato, che supportano la resistenza di Kiev. A questo si aggiungano le non poche preoccupazioni dovute alle catastrofi naturali: i terremoti, certo, ma con in primo piano le conseguenze di un clima che con frequenza crescente genera fenomeni sempre più violenti.

È una questione di sovranità, in tutte le accezioni possibili.

Sul versante esterno, invece, è una questione di potere: la Cina non può lasciare il monopolio di tecnologie e infrastrutture strategiche in mano ai concorrenti, o ai potenziali nemici. In quest’ottica, lo spazio – inteso come “volume” da sfruttare – andrebbe visto come una risorsa, per la precisione una risorsa finita: se si sommassero tutti i dispositivi previsti per tutte le costellazioni al momento attive e in previsione, si supererebbe facilmente quota 100mila.

Per questo, oggi, è complesso rispondere a chi chieda se lassù ci sia davvero spazio per tutti. È una questione aperta e pronta a trasformare l’orbita in un prossimo campo di contesa.



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