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Così lo spazio è diventato più economico. Parte 2 – SpaceX e la rivoluzione

La compagnia di Elon Musk ha portato una filosofia nuova nei lanci spaziali (con il supporto rilevante di Nasa e Difesa). Il resto è competizione e, per ora, il mondo è costretto a rincorrere.

DI EMILIO COZZI

Il motivo per cui c’è poca domanda di voli spaziali è che sono assurdamente costosi… il problema è che i razzi non sono riutilizzabili”.

È un capitolo, quello evocato dalle parole di Elon Musk, che somiglia a molti altri della storia dell’Umanità. Il modo in cui lo spazio si è “democratizzato” – virgolette obbligatorie -, in cui si sono abbassati i costi per lanciare satelliti e altri carichi in orbita, è piuttosto lineare e attiene al progresso tecnologico e alle leggi di mercato. Più concorrenza, maggiore offerta ergo prezzi più bassi.

Tutto sulla base di un bene prezioso, preziosissimo, ma di cui fino a qualche anno fa era ancora poco chiaro il potenziale: l’accesso e la permanenza in orbita. O, postulando fosse già chiaro anni addietro, con tempi allora non maturi perché i lanci spaziali diventassero parte della vita di tutti i giorni. Poi, da quando se ne è avvertita l’esigenza – telecomunicazioni, trasmissioni broadcast, navigazione e posizionamento – il mercato ha fatto il resto, prendendo le mosse da un monopolio (para)statale, per innescare un florilegio di attività commerciali a costi più contenuti.

 

Si scrive mercato, si pronuncia SpaceX

A innescare la rivoluzione e a costringere tutti gli altri, volenti o nolenti, a rincorrere è stata Space Exploration Technologies Corporation, ben più nota come SpaceX, l’azienda fondata 22 anni fa da Musk. A forza di test “sul campo”, con lanci, errori e miglioramenti uno dopo l’altro – il copione applicato anche nello sviluppo di Starship – SpaceX ha messo a punto il vettore più affidabile sul mercato. Non paga, ha iniziato a fare ciò che nessuno aveva tentato prima: riutilizzare i razzi. Ai primi tre failure con il Falcon1, lanciato dall’atollo delle isole Marshall dove SpaceX è cresciuta nei suoi primi anni di attività, sono seguiti i successi, quindi la cavalcata a oggi inarrestabile del Falcon9. Dal 2010 il lanciatore ha fatto registrare un failure completo, un altro parziale e un’esplosione sulla piattaforma ma non durante un lancio. Oltre a circa 300 missioni consecutive andate a buon fine.

Nel 2015 la compagnia di Musk inizia davvero a cambiare le carte in tavola: accade nel momento in cui il primo stadio di un Falcon9, dopo aver spinto nello spazio 11 piccoli satelliti, rientra e si posa di nuovo al suolo, esattamente sulla “X” dipinta sulla landing zone di Cape Canaveral. Al contrario dei suoi successori, quel lanciatore non ha più volato; è diventato un monumento esposto all’intersezione della Crenshaw Boulevard e la Jack Northrop Avenue di Hawthorne, in California, accanto alla sede della compagnia. Il business plan di SpaceX ha preso corpo via via: riutilizzare i razzi almeno una decina di volte. Sono oltre 40 quelli prodotti, con un record di 19 voli per un singolo primo stadio, il B1058, andato distrutto, ironicamente, non per un atterraggio fallito ma durante le operazioni di recupero. La maggior parte è rientrata su una piattaforma marina al largo delle coste della Florida o della California.

La filosofia aziendale si potrebbe sintetizzare con due citazioni. La prima spiega perché convenga riutilizzare i lanciatori: “gettare via stadi di razzi multimilionari dopo ogni missione non ha più senso che gettare via un 747 dopo ogni volo“. L’altra è un confronto tra una Ferrari e un’utilitaria: “Molte volte ci è stato chiesto: se si riducono i costi, non si riduce l’affidabilità? Questo è totalmente ridicolo […] scommetto mille a 1 che se comprate una Honda Civic, quella non si romperà nel primo anno di funzionamento. Si può avere un’auto economica e affidabile, e lo stesso vale per i razzi“. Due affermazioni che immediatamente portano a considerare il risparmio della produzione in scala di molti vettori. SpaceX ne sfrutta tanti, anche e soprattutto per lanciare i satelliti della gigantesca costellazione Starlink (che inizia a dare profitti). Il segno, quest’ultimo, di come è probabile la compagnia punti, a lungo termine, a diventare un service provider spaziale, più che una manifattura di hardware extra-atmosferico.

 

L’incubatore della Nasa

Quello di SpaceX è il proverbiale “segreto di Pulcinella”: ciò che rende competitiva la compagnia è un approccio che, a fronte della mancanza di una domanda adeguata, fino a pochi anni fa nessuno aveva tentato. Circostanza – la carenza di un’esigenza di mercato – a sua volta legata all’incapacità di intravedere l’ampio spettro di opportunità poi spuntate come fili d’erba.

SpaceX ha, de facto, creato e proposto uno standard e introdotto, per la prima volta nel settore dei lanciatori, la scalabilità reale. La produzione in grandi quantità è un fattore, contrapposto alle progettazioni taylor made, “su misura”. Un altro fattore rilevante nell’approccio (e nel successo) di SpaceX è la capacità di ridurre i tempi per arrivare a un servizio operativo facendo test sul campo, imparando dagli errori, migliorando una verifica dopo l’altra. La differenza è indiscutibile se raffrontata, per esempio, con lo sviluppo dello Space Launch System della Nasa, risultato di uno “sviluppo tradizionale” dell’industria e in grado di staccarsi da terra dopo rinvii annosi e solo in occasione del volo inaugurale, che ha sancito anche il kickoff del programma Artemis. Simile alle dinamiche di sviluppo e produzione – e per certi versi figlia del medesimo approccio contrattuale – dell’epoca Apollo, nessuna delle parti del nuovo sistema di lancio della Nasa (stadio centrale, booster e stadio superiore) è progettata per volare due volte. Nemmeno le capsule Orion, deputate al trasporto degli equipaggi, verranno riutilizzate in toto. Starship dovrà invece essere il primo sistema di lancio completamente riusabile, dal primo stadio – il Super Heavy -all’astronave propriamente intesa – la Starship, appunto.

 

Doveroso ricordarlo: SpaceX è arrivata quasi dal nulla.

Fondata nel 2002 è nata dall’idea di un neo milionario – il patrimonio personale dell’allora trentenne Musk arrivava dalla cessione delle sue prime imprese imprenditoriali, Paypal la più recente – ossessionato dalla volontà di portare l’Umanità su Marte e fresco di numerosi rifiuti, quando non di risposte derisorie, da parte dei colossi statali e russi. Rifiuti cui Musk reagì decidendo di produrselo in autonomia, un razzo.

Lo sviluppo del Falcon1 è costato 90 milioni e si è protratto mentre i tempi diventavano maturi affinché tutto, nel settore, fosse pronto a un cambio radicale.

D’altronde, già nel settembre del 2008, poco prima che SpaceX effettuasse il suo quarto e potenziale ultimo tentativo di lancio del Falcon, il futuro presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, era stato istruito dalla sua consulente per le questioni spaziali, Lori Garver.

Veterana della Nasa, Garver aveva suggerito – non senza rischi, visto il non entusiasmante score di SpaceX fino a lì – di cambiare l’approccio allo spazio e alla costruzione dei razzi. Il previsto programma “Constellation”, approvato dall’amministrazione di George W. Bush, deputato al completamento della Stazione spaziale internazionale e al ritorno sulla Luna “non oltre il 2020”, si basava sui contratti a costo variabile affidati, per la costruzione di gran parte dei componenti, alla United Launch Alliance, la joint venture costituita nel 2006 da Lockheed Martin e Boeing. In pochi anni i costi erano più che raddoppiati e nulla garantiva l’emorragia si sarebbe fermata.

Garver aveva quindi proposto al futuro inquilino della Casa Bianca di abbandonare il programma Constellation e lasciare ad aziende private lo sviluppo di mezzi capaci di trasportare gli astronauti oltre l’atmosfera.

Come dimostrato dal programma Constellation, i membri dell’esclusivo club degli space contractor non avevano alcun interesse a correre rischi, a sviluppare soluzioni creative e a tagliare tempi e costi. Non era un caso se l’elite fosse perlopiù composta dagli stessi grossi nomi – appunto, Boeing e Lockheed Martin – coinvolti nel business spaziale dai tempi dell’Apollo, se non da prima.

Con questo sistema non si va su Marte. Ti spinge a concludere niente. Se non porti mai a termine un contratto cost plus, rimani attaccato alle tette del governo per sempre”. Ancora Musk.

Le cui opere si tradussero, per cominciare, nella riassegnazione di un contratto affidato a Kistler Aerospace, di cui SpaceX si aggiudicò una parte sostanziosa dopo una causa intentata direttamente contro la Nasa. Non fu solo una bega legale con finale a sorpresa; era il primo scricchiolio di una struttura economico industriale ingessata da sessant’anni, la prima vittoria del rivoluzionario Davide contro gli istituzionalizzati Golia dello spazio, o, fuor di metafora, l’apertura del pertugio attraverso il quale l’aggettivo new si sarebbe accomodato davanti a space economy.

A quel punto “andarono tutti fuori di testa”, per dirla ancora alla Musk. Perché il risultato fu il finanziamento, da parte della Nasa, del programma Commercial Orbital Transportation Services (Cots), per lo sviluppo di un veicolo di rifornimento orbitale e di trasporto astronauti. SpaceX cominciò a vincere tutto, letteralmente. La Nasa fece da “incubatore” alla strategia di un’azienda nata nel Paese che per ragioni militari, civili e scientifiche storicamente effettua più missioni in orbita e oltre (tra quelli a economia capitalista), in primis risolvendo il problema alla radice di tutto: la mancanza di domanda di lanci spaziali.

 

L’incubatore crea la domanda

Subentrando, de facto, a quello che era un monopolio, SpaceX ha divorato fette di mercato interno. Prima con i rifornimenti cargo alla Stazione spaziale internazionale, poi con il Commercial Crew Program, nel quale è stata finanziata dall’agenzia spaziale statunitense per sviluppare la nuova Crew Dragon, il mezzo che nel 2020 ha restituito all’America la capacità d lanciare astronauti dal territorio nazionale, nove anni dopo la fine del programma Space Shuttle.

Solo dal 2006 al 2018, nell’ambito del Commercial Crew Program, SpaceX ha ricevuto in contratti Nasa oltre 5,2 miliardi di dollari. Dal 2020 si sono aggiunti anche il servizio trasporto manned e i contratti, miliardari pure questi, per i lanci operati per conto dell’intelligence e della Difesa statunitense – grazie a uno scoop della Reuters, si è saputo pochi giorni fa che con un contratto da 1,8 miliardi di dollari, SpaceX sta sviluppando dal 2021 anche una costellazione satellitare per usi militari: Starshield.

Più di una volta i competitor (soprattutto in Europa) hanno lamentato quella che considerano una “concorrenza sleale” da parte di SpaceX e, indirettamente, del sistema americano. L’accusa è quella di vendere a prezzi gonfiati negli Usa per poter praticare all’estero tariffe al ribasso, il cosiddetto “dumping”. Risolvere questo nodo è complesso, sebbene ci si possa fare un’idea guardando i conti.

 

Il listino prezzi SpaceX

A novembre del 2023 la US Space force ha firmato contratti con Ula e SpaceX per portare in orbita asset militari con una serie di lanci. Alla prima vanno 1,3 miliardi per 11 missioni. Alla seconda 1,23 miliardi per dieci missioni. Salta all’occhio subito un fatto: i prezzi per lancio sono quasi identici per le due compagnie. È già una notizia.

Merito di Ula, che ha messo a punto un nuovo vettore, il Vulcan, il cui prezzo dovrebbe essere di circa 100 milioni di dollari per ogni lancio, o di SpaceX, che gonfia le tariffe per gli enti pubblici?

Più nel dettaglio, per SpaceX si tratta di sette missioni con il Falcon9 (il prezzo commerciale dichiarato per lancio è di 67 milioni di dollari nel 2022, con qualche aggiustamento che potrebbe essere sopraggiunto) e tre con il Falcon Heavy (ultimo prezzo disponibile: 97 milioni). Arrotondando, il totale sarebbe di 790 milioni, la Difesa paga dunque oltre 400 milioni in più del prezzo di mercato. E ci si aggiunga un dettaglio tutt’altro che irrilevante: SpaceX recupera pressoché tutti i booster che lancia. Poi li riutilizza. Di contro, il Vulcan è ancora totalmente expendable. Detto altrimenti, parrebbe che gli affari con gli enti pubblici americani siano una miniera d’oro per Musk.

Nel 2020 la U.S. Air Force ha speso 316 milioni per un singolo lancio, quello di un satellite da spedire in orbita nel 2022 su un Falcon Heavy. In quel caso, la chief operating officer di SpaceX, Gwynne Shotwell, motivò l’enormità della cifra menzionando una serie di servizi e infrastrutture aggiuntive necessarie al lancio di un asset strategico. Di nuovo, è il paradigma capace di fare tutta la differenza del mondo tra un lancio su misura e uno standard commerciale. Come quello che l’Agenzia spaziale europea ha acquistato per un seppur preziosissimo strumento, il telescopio spaziale Euclid. Trovatasi a corto di lanciatori disponibili, dopo il failure della prima missione commerciale di Vega C e i ritardi nello sviluppo di Ariane 6, l’Esa ha dovuto trovare in poco tempo un’alternativa. E SpaceX ha risolto l’impasse in un modo impossibile per gli altri, come ha sottolineato Mike Healy, capo dei progetti scientifici Esa: “abbiamo firmato il contratto il 31 gennaio 2023, cinque mesi prima del lancio. Il primo contatto informale con SpaceX risaliva a maggio del 2022. Abbiamo concluso in poco più di un anno; in Europa ne sarebbero serviti due o tre”.

Considerazione cui andrebbe aggiunta la questione costi, oltreoceano sempre più competitivi. “Il costo totale del lancio SpaceX è stato attorno ai 70 milioni di euro – ha precisato Healy – incluse le misure necessarie per i requisiti di pulizia. Il costo di un lancio con Ariane 6 sarà invece attorno ai 90 milioni”. Anche qui sarebbe doveroso notare una sostanziale differenza: Ariane 6 non sarà riutilizzabile. I due vettori, il Falcon9 e il nuovo Ariane, sono comparabili per potenza (22 tonnellate in orbita bassa), ma molto diversi in quanto a prezzo.

 Tornando a fare semplici divisioni: un lancio SpaceX con il Falcon9 – 67 milioni – può significare una spesa di 3mila dollari per ogni chilo di carico trasportato. Con il Falcon Heavy si arriva addirittura a 1.500 dollari circa. Una differenza enorme, per esempio, con il primo veicolo spaziale (e orbitale) riutilizzabile degli Stati Uniti. Lo Space Shuttle prometteva una rivoluzione: il sistema avrebbe dovuto offrire un risparmio consistente, data la riutilizzabilità della navetta (l’orbiter). In realtà si arrivò a spendere, in media, oltre un miliardo a lancio e circa 30mila dollari al chilo, sei volte più del mastodontico Saturn V. Rapportato al Falcon9, dieci volte più costoso, 20 rispetto al Falcon Heavy.

 

Se lanciamo insieme…

Ventidue tonnellate – la massa che un Falcon9 può trasportare in orbita bassa – sono tante. In pochi hanno payload così pesanti da lanciare in orbita bassa, soprattutto per un singolo satellite. Per questo Starlink è arrivata a dispiegare anche 60 satelliti con un solo lancio, in totale quasi 20 tonnellate. Ciò che ha cambiato il mercato dei lanci spaziali, abbassando il prezzo, è proprio la condivisione dello stesso vettore da parte di clienti diversi. L’esempio più “estremo” è quello delle missioni rideshare, con cui SpaceX, a cadenza più o meno regolare, consegna allo spazio decine di smallsat di massa, ciascuno, fra le decine e le centinaia di chilogrammi. Il prezzo al chilo, in questo caso, sale fino a 6mila dollari. Ma chi deve lanciare un satellite di 50 chilogrammi ha poca scelta, se non quella di sborsare, invece di 300mila dollari per un lancio in rideshare, magari 7,5 milioni per una missione dedicata e con un vettore più leggero, come l’Electron di Rocket Lab.

È una questione di opportunità, di quanto si sia disposti a investire per assicurarsi un servizio dedicato (taylor made), oppure ad adattarsi a condizioni e tempi non scelti ma con prezzi più vantaggiosi (in rideshare). Fino a poco tempo fa indisponibile sul mercato, oggi la scelta garantisce a una platea sempre più ampia di stakeholder l’accesso allo spazio. E, a SpaceX, il presidio di una fetta corposa di un mercato nuovo.

Questo, con qualche semplificazione, è oggi SpaceX: un’azienda che, come racconterà la terza parte di questa panoramica, gli altri rincorrono.



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