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Le ricchezze dello spazio: scrigni aperti e tanta (fanta)scienza

Un business plan sostenibile per sfruttare asteroidi e risorse lunari ancora non esiste. Ma ci si sta lavorando. Nel frattempo si fanno affari con i governi e si attinge all’abbondanza che ci circonda, a due passi (cosmici) dal nostro Pianeta

DI EMILIO COZZI

Quintilioni. Precisazioni matematico-linguistiche a parte (da noi sarebbero “trilioni”), che siano dollari o euro conta poco. Perché la cifra è così fuori misura che per darne un’idea riportiamo il calcolo che il columnist del New York Times, Peter Coy, ha proposto ai lettori della sua rubrica economica: “Diciamo che una bella auto nuova costa 100mila dollari. Con 10 quintilioni di dollari nel vostro portafoglio grazie all’estrazione dagli asteroidi, potreste comprare una di queste auto per ogni persona sulla Terra, e poi sostituirla con un’auto ancora più nuova ogni ora, e continuare a farlo per ogni persona ogni ora per il prossimo anno e mezzo prima che i vostri soldi finiscano”.
Coy sta scrivendo di Psyche, l’asteroide metallico meta della omonima missione Nasa decollata qualche settimana fa. Presentato al mondo come una miniera ricchissima, si stima Psyche possa valere diecimila volte il prodotto interno lordo globale.

Il compito della missione, però, non è fare mining, ma studiare ciò che resta di un pianeta mai cresciuto, il nucleo metallico di un altro “mondo” (anche la Terra possiede un nucleo metallico) rimasto asteroide e oggi vagante nella fascia tra Marte e Giove. Non ancora nota, la sua composizione sarà rivelata dalla sonda Nasa a partire dal 2029, anno previsto dell’arrivo.

Ciò non toglie Psyche abbia già dato adito a discorsi più approfonditi sulle risorse extra-atmosferiche. Se ne dovesse dare una definizione, bisognerebbe riferirsi alle ricchezze che possiamo, dallo spazio, portare sulla Terra o sfruttare direttamente in situ a beneficio di attività umane (economiche, ma non solo). Così, mentre la fantasia immagina gigantesche trivelle che perforano brandelli di mondi lontani, magari sotto il controllo di robot come nei racconti di Isaac Asimov, la realtà suggerisce un approccio più graduale: prima di scoperchiare questi scrigni spaziali, meglio parlare di polvere, ghiaccio e luce. Perché è fra polvere, ghiaccio e luce che si cercheranno le prime risorse extraterrestri.

La miniera Luna
Sarà un nuovo capitolo dell’esplorazione spaziale: capire che cosa abbia valore oltre l’orizzonte della nostra atmosfera. La prima tappa sarà la Luna. È il corpo celeste più grande e, finora, l’unico accessibile anche da equipaggi umani. Non ha atmosfera né vita e si pensa di trovarci materiali sempre più rari sul nostro Pianeta, in primis terre rare ed elio-3. Le prime, indispensabili per la componentistica elettronica, sulla Terra sono in larga parte prodotte, possedute o amministrate dalla Cina. L’elio-3 sarà fondamentale quando la fusione nucleare dovesse diventare realtà.

Il posto giusto è il polo sud, dove le condizioni sembrano ideali: in alcuni punti più elevati, infatti, il Sole non tramonta praticamente mai, assicurando almeno una delle fonti di energia più ricercate: la sua luce. Sul fondo dei crateri, invece, l’ombra è perenne. Lì si andrà a cercare ghiaccio, prima di tutto. Ce n’è, anche se in quantità ancora da stabilire. Dall’acqua, oltre a poterla sfruttare come risorsa vitale per gli astronauti, si può ricavare l’idrogeno, cioè carburante per generare energia utile a un insediamento e, in futuro, a una colonia. Ma anche, in prospettiva, per rifornire i razzi che riporteranno i pionieri a casa o li proietteranno verso destinazioni più remote nel Sistema solare.

Le prime risorse saranno quelle che permetteranno l’autosussistenza, o comunque faciliteranno la sopravvivenza in quegli ambienti ostili. Vale per la Luna – dove anche la regolite, la polvere lunare, potrà fornire acqua e servire da materiale da costruzione – e ancora di più per Marte. Sul Pianeta rosso si andrà infatti a scavare per cercare i laghi sotterranei rilevati dagli strumenti radar delle sonde orbitanti.
Allora sarà più opportuno parlare di business. Perché la nuova corsa allo spazio (alla Luna, per cominciare) non replicherà il programma Apollo; implicherà il via libera alle aziende private che vorranno sfruttare le risorse del nostro satellite naturale, dopo che i governi e le agenzie spaziali avranno spianato la strada.

A cercare cosa e in quali quantità sono ancora questioni poco nitide. A questo proposito, la Nasa ha dato vita al Commercial Lunar Payload Services (o Clps), programma da 2,6 miliardi di dollari per finanziare missioni private (robotiche) sulla superficie selenica. Già da quest’anno inizieranno le manovre di esplorazione: Intuitive Machines sarà la prima compagnia privata statunitense, con un contratto Clps, che proverà a sbarcare un suo lander. Astrobotic invierà un rover per avventurarsi nell’ombra e scovare il ghiaccio. Nel corso dei prossimi sei anni, sono almeno due decine le iniziative che corrono in parallelo col programma Artemis, quello che mira a riportare un equipaggio sul nostro satellite naturale per la prima volta dal 1972. È previsto succeda con Artemis III, alla fine del 2025, sebbene gli scettici – fra cui nomi pesanti, come quello di Paul Martin, dell’Ufficio dell’Ispettore Generale della Nasa – l’parlino con insistenza dell’anno successivo.

Ma parliamo di affari
A un privato converrà mai insediare il suo business fra le polverose lande seleniche? Di nuovo occorrono alcuni distinguo: la risposta è sì, se per affari si intenda mettersi al servizio delle prossime missioni esplorative, in cui investono soprattutto gli Stati. È il paradigma modernizzato di ciò che è successo negli ultimi sessant’anni nello spazio occidentale. I fondi, miliardi su miliardi, sono quelli dei taxpayer, i contribuenti. Per il servizio di trasporto, per esempio, in cui SpaceX è quasi monopolista. Per materiali e tecnologie da sviluppare, come già avviene per il Cpls, sotto l’ombrello del programma Artemis, o per l’avventura cinese (e qui l’ecosistema capitalistico ha contorni ben più sfumati) della International Lunar Research Station. Ci sarà bisogno di connessione, navigazione, servizi dati, una rete di satelliti da costruire attorno alla Luna. Ci lavorano la Nasa (Lunanet e Lunar surface navigation system) e l’Esa (Moonlight, con l’Italia fra i protagonisti), con una call ai privati affinché sviluppino ciò che serve e vendano il servizio poi ai governi. Andarci da soli non è ancora un’opzione.

Per aprire lo scrigno serve ancora tempo, anzitutto per studiare cosa effettivamente contenga. E quanto. Ma qualcosa in prospettiva già si può dire: uno studio del See Lab Bocconi, basato sui dati della Colorado School of Mine, stima che il modello pubblico-privato dell’esplorazione spaziale, a fini di sfruttamento delle risorse, può arrivare ad avere quasi il 100% di successo. Ancora si parla di andare sulla Luna, estrarre ghiaccio e ricavarne propellente. Con quello, rifornire le astronavi e ridurre drasticamente i costi di trasporto. Tutte le altre attività di estrazione potrebbero prendere le mosse da lì. Con questo boost all’esplorazione, cercare nuovi obiettivi estrattivi, come minerali e altre risorse, non potrà che venire di conseguenza.

La Luna è vista anche come trampolino di lancio verso Marte. Per la sua gravità ridotta (produrre propellente per decollare da lì sarebbe molto più economico che farlo sulla Terra) e soprattutto come banco di prova per testare e validare, a due passi dalla Terra, le tecnologie di sopravvivenza e autosussistenza necessarie sul Pianeta rosso, che dista centinaia di milioni di chilometri. Il business plan di un’azienda che intenda mettersi su questa strada non può che partire da questo. Centri di ricerca australiani, come Csiro e Crc, studiano (anche insieme con l’italiana e-Geos per le mappe satellitari) sistemi e mezzi automatici e a controllo remoto, come ruspe ed escavatori, per l’attività estrattiva extraterrestre.

Nell’immaginario comune, complici le novelle di Asimov, le miniere cui attingere per ricavare risorse in esaurimento o scarse sulla Terra sono gli asteroidi, sorta di giganteschi iceberg alla deriva del Sistema solare. In Maledetti marziani, Asimov descrive la tensione che investe i coloni umani su Marte accusati dai terrestri di consumare troppa acqua. Per questo i protagonisti decidono di spingersi fino agli anelli di Saturno per trainare una grossa scorta di ghiaccio e rendersi indipendenti dai rifornimenti del Pianeta blu (abitato dagli ormai odiati “terricoli”).

Via dalla fiction, il consumo di energia per arrivare ad arpionare un asteroide ghiacciato o una riserva di metalli come Psyche è così alto da far apparire lontana, oggi, la sostenibilità economica del progetto. Basti l’esempio di Osiris-Rex, la sonda Nasa che si è posata sull’asteroide Bennu per portare sulla Terra campioni di suolo da analizzare: costata oltre un miliardo di dollari, la missione ha sganciato nel deserto dello Utah una capsula con qualche etto di polvere e pietrisco. L’obiettivo di un’impresa del genere probabilmente resterà confinato alla conoscenza per molti anni ancora.

Il Sole, la ricchezza più grande
Eppure sono decenni che le missioni spaziali, attorno alla Terra o più lontano, fanno mining della ricchezza forse più grande, l’unica della cui abbondanza siamo certi: l’energia solare.
Nello spazio, senza atmosfera a fare da filtro, nuvole a oscurarla e senza l’alternanza di giorno e notte, la sua quantità è stricto sensu smisurata. Satelliti, sonde, telescopi, stazioni spaziali e capsule, hanno dispiegato le ali, aprendo i pannelli solari per alimentare le proprie batterie.
Grazie a loro, James Webb Space Telescope e Hubble continuano a scrutare gli angoli più lontani del Cosmo. Più vicino a noi, invece, l’energia solare investe la Terra da una distanza che renderebbe la raccolta di luce molto vantaggiosa. Da qui l’idea: impianti fotovoltaici giganteschi capaci, dallo spazio, di trasformare la radiazione solare in elettricità per poi spedirla sulla Terra (l’aveva immaginata, indovinate chi…? Isaac Asimov, nel 1941. Il racconto è Reason, in italiano Essere razionale).
La tecnologia è nota: microonde. È il sistema che permette, per esempio, la ricarica wireless di smartphone, aspirapolvere e automobili, ampiamente in commercio. Ma, beninteso, da distanze ridotte, circoscritte a un salotto di casa, al ripostiglio o al garage.
I progetti, ancora tutti sulla carta, prevedono invece di trasferire enormi quantità di energia – megawatt o addirittura gigawatt di potenza – da oltre 30mila chilometri verso stazioni al suolo. Un primo test lo ha effettuato il Caltech, trasferendo alcuni watt per accendere un paio di led, nello spazio, distanti fra loro meno di un metro. Un altro esperimento, questa volta cinese, ha testato la stessa tecnologia a terra da una distanza di 55 metri.

Dovesse essere intrapresa, sarà un’operazione titanica. Gli impianti che si vanno progettando, come quelli del programma Solaris dell’Agenzia spaziale europea, sono strutture lunghe e larghe chilometri, da assemblare in orbita geostazionaria usando, si prevede, robot autonomi. Per confronto, si ricordi che la struttura orbitante più grossa mai realizzata, la Stazione spaziale internazionale, ha le dimensioni di un campo di calcio.
Il tutto andrebbe portato in orbita sfruttando centinaia di lanci. I costi variano, ma si parla di miliardi di euro solo per la costruzione. E senza contare l’attuale inesistenza della necessaria tecnologia di orbital manufacturing, o il fatto che il costo dei lanci a quella distanza, oggi, non consentirebbe un business plan sostenibile. A meno che, ovvio, non siano i governi a investire.
La prospettiva non è inverosimile: considerato una delle vie per la decarbonizzazione, il cosiddetto Space Based Solar Power va riscontrando un interesse crescente. Le stime emerse dallo studio preliminare dell’Esa indicano che la prima stazione solare spaziale potrebbe essere operativa già nel 2040. A patto di iniziare a investire subito per il suo sviluppo. La Cina ha più fretta. Promette piena operatività già entro il 2028.

L’oro spaziale: i dati
Frattanto si torni al presente: il mining spaziale si sta già facendo, solo non nel senso cui si penserebbe di primo acchito. È quello relativo ai dati: immagini, osservazione e comunicazione costituiscono il primo scrigno spaziale che abbiamo già imparato a sfruttare, soprattutto in orbita terrestre con i satelliti. Ma non solo: è sterminata la conoscenza che acquisiamo ogni giorno dai telescopi orbitanti, da Hubble al James Webb, da Gaia a Fermi. Anche quelli sono motori capaci di spingere l’economia spaziale. Un rapporto dell’Agenzia europea per il programma spaziale (Euspa) stima in 2,8 miliardi di euro il valore globale generato dall’Osservazione della Terra nel 2021, di cui oltre 2 miliardi in valore aggiunto e meno di uno per il “dato grezzo”, valori destinati a raddoppiare entro una decade, secondo le proiezioni. Impressionanti i numeri dei servizi di posizionamento satellitare (Gnss), che nel 2021 valevano 199 miliardi di euro e schizzeranno a quasi 500 miliardi nel 2031.

Si tratta di tutti i prodotti “derivati” dalle osservazioni, i servizi a persone e dispositivi (si pensi alla navigazione, in mare o su Terra), ad aziende nella coltivazione dei campi o agli enti pubblici per il governo del territorio (meteo, disastri naturali, ondate di calore, frane o rilievi di strutture ed edifici) con dati geospaziali. Dalla materia prima, i dati, abbondano le industrie capaci di lavorarli e trasformarli in prodotti da commercializzare. Senza bisogno di avventurarci (ancora) milioni di chilometri lontano, lo scrigno delle risorse spaziali l’abbiamo qui, appena sopra le nostre teste.



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