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Boeing: all’ombra di SpaceX

Dopo il flop della capsula Starliner, che non riporterà gli astronauti a casa dalla Iss, il colosso del trasporto aereo affronta una parabola ancora più ripida per le sue attività spaziali. La compagnia di Elon Musk, nel mentre, scrive nuovi record.

DI EMILIO COZZI

La Nasa non fa sconti, non se lo può permettere: Sunita Williams e Butch Wilmore, gli astronauti decollati lo scorso 5 giugno a bordo della capsula Cst-100 Starliner della Boeing, faranno rientro sulla Terra con una Crew Dragon di SpaceX, cioè il principale concorrente, almeno nel settore del trasporto umano da e verso l’orbita. Sono troppi i problemi della Starliner, arrivata alla Stazione spaziale internazionale (Iss) con l’obbiettivo di essere qualificata per il volo umano. Avrebbe dovuto essere una missione di otto giorni, ma Williams e Wilmore resteranno sulla Iss per otto mesi, fino a febbraio 2025. 

Difficile non interpretarla come l’umiliazione di uno dei contractor storici del programma spaziale statunitense. Da anni Boeing fronteggia eclatanti flop e non solo in ambito spaziale. Un po’ per le cifre coinvolte, un po’ per il prestigio di un’azienda che in tempi recenti ha dovuto rispondere a dubbi seri circa l’affidabilità dei propri aeromobili: in un’audizione del 17 aprile al Senato del Congresso americano quattro, fra ex e attuali dipendenti, hanno testimoniato contro l’impresa e sottolineato gravi problemi di sicurezza nella produzione dei Boeing 737 Max, 787 Dreamliner e 777.

Al tutto andrebbe aggiunta una strategia spaziale che, secondo gli analisti, farebbe acqua e indicherebbe una barca su cui non vale più la pena navigare. 

Aspettando Starliner, SpaceX vola

I fatti sono impietosi, da riassumere con qualche data e qualche numero: nel 2014 la Nasa firma due contratti per il “Commercial crew program”, con SpaceX e Boeing. Stanzia fondi per finanziare lo sviluppo e la costruzione di nuovi veicoli e per pagare il servizio di trasporto verso e dalla Stazione spaziale internazionale. Dall’essere proprietaria del mezzo, come successo per lo Space Shuttle fino al 2011, la Nasa diventa acquirente delle compagnie di trasporto, dalle quali acquista “biglietti” – o seat – per i propri astronauti. Per restituire all’America la possibilità di lanciare donne e uomini nello spazio facendoli partire dal territorio statunitense e con mezzi “made in Usa”, dieci anni fa a Boeing vengono accordati 4,2 miliardi di dollari e a SpaceX 2,6.

SpaceX risponde senza sbagliare un colpo: sei anni dopo la sigla dell’accordo, nel maggio del 2020, qualifica la Crew Dragon con la missione Demo-2, traghettando sulla Iss Doug Hurley e Bob Behnken, due veterani che avevano già volato proprio con lo Space Shuttle. Boeing, invece, inizia ad accumulare ritardi e costi. All’onorario che secondo i contratti iniziali dovrebbe essere fisso, la Nasa allora aggiunge 287 milioni. Ma le cose non cambiano: nel 2019 il primo test orbitale della Starliner, destinata alla Iss ma senza equipaggio, è un insuccesso. Un errore del software le impedisce l’attracco alla Stazione. La capsula rientra a terra, dove rimane quasi due anni e mezzo prima di riuscire, finalmente, a tornare in orbita: decolla il 19 maggio 2022 e rientra il 25. In mezzo, nel 2021, incappa in un lancio abortito a causa di problemi al sistema di propulsione. Ciò nonostante, Boeing si prepara al passo successivo: il primo trasporto in orbita di un equipaggio, quello del 5 giugno.

Di nuovo, però, le cose non girano per il verso giusto: a countdown in corso, viene rilevata una perdita di idrogeno, che tuttavia non preoccupa troppo gli ingegneri. Si decide di procedere con il lift-off. Durante il viaggio, le perdite aumentano, ma soprattutto si palesano problemi ai propulsori, in questo caso non trascurabili: sono i motori con i quali la Starliner manovra, sia in fase di attracco e di allontanamento dalla Iss, sia per orientarsi durante il delicato rientro in atmosfera. Per questo motivo Williams e Wilmore devono anzitutto attendere verifiche prima di approcciare la Iss, quindi, una volta a bordo, arrendersi al fatto che non torneranno a casa sullo stesso mezzo che li ha portati fino a lì.

Lo spettro del Columbia

Bill Nelson, amministratore della Nasa ed ex astronauta, lo ha annunciato il 24 agosto, quando, in una conferenza stampa, si è soffermato su un inciso importante: “Questa discussione va contestualizzata. Ci sono stati errori in passato. Abbiamo perso due Space Shuttle perché non avevamo una cultura nella quale l’informazione sia potuta emergere”.

Nelson ha evocato gli spettri del Challenger e, in particolare, del Columbia, la navetta che si disintegrò nei cieli del Texas il primo febbraio del 2003, durante la fase di rientro. Alcune delle mattonelle dello scudo termico a un’ala dello Shuttle si erano staccate durante il decollo, colpite ad alta velocità da un pezzo di schiuma isolante staccatosi dal serbatoio principale. Pur notato l’incidente, la Nasa decise di procedere con la missione. Al rientro in atmosfera, però, non più dissipate dalla schermatura compromessa, le temperature estreme distrussero il Columbia. Persero la vita tutti e sette i suoi occupanti. Gli appassionati di spazio ricordano ancora Charles O. Hobaugh, responsabile delle comunicazioni con l’equipaggio, tentare più volte il contatto radio: “Columbia, Houston, UHF comm check” e, dall’altra parte, solo scariche elettrostatiche, quindi il silenzio.

Non del tutto diverso, almeno in quanto a consapevolezza del rischio, fu l’incidente del Challenger, il 28 gennaio del 1986. Disintegratosi con il suo equipaggio, in diretta tv, 73 secondi dopo il decollo, come stabilì la commissione d’inchiesta Roger, il Challenger fu vittima del malfunzionamento di una delle guarnizioni di un booster laterale – un O Ring -, un problema noto da almeno otto anni.

Gli eventi e le responsabilità traumatizzarono il pubblico, non solo negli Stati Uniti, e interruppero il programma Space Shuttle per anni.

È facile comprendere perché la Nasa, oggi, non possa permettersi di far rientrare astronauti senza la certezza che il mezzo su cui viaggiano possa mantenere l’assetto ottimale per tuffarsi in atmosfera, dove l’attrito con l’aria produce temperature di migliaia di gradi. 

Dove non arriva Boeing c’è sempre SpaceX 

Nel frattempo, nonostante il secondo stop in due mesi ai lanci dei Falcon 9 – il secondo stabilito dalla Federal Aviation Administration dopo l’incidente occorso in fase di rientro al Booster 1062, il 28 agosto – SpaceX sembra non avere una concorrenza vera e a fine agosto ha scritto addirittura un nuovo record: due missioni lanciate con successo a distanza di un’ora e cinque minuti l’una dall’altra.

Anche per questo, a dirla tutta, il fatto che sia una Crew Dragon ad andare “in soccorso” della Nasa per tappare i buchi lasciati da Boeing, non è né sorprendente né inedito.

Quando nelle prossime settimane, comunque non prima del 24 settembre, la capsula Dragon Freedom attraccherà alla Iss con due astronauti anziché quattro, cioè il comandante Nick Hague e il cosmonauta Aleksandr Gorbunov – i posti liberi sono, appunto, per il ritorno di Williams e Wilmore – sarà la decima volta che SpaceX fornirà il servizio di trasporto manned per la Nasa. Di più qualora nel computo si inseriscano anche i voli commerciali (Inspiration4 e tre missioni Axiom). E qui occorre riprendere il discorso economico.

I fondi assegnati per i due contratti firmati nel 2014 comprendevano la progettazione e lo sviluppo della capsula, la validazione e la qualificazione per il volo umano – cioè i due voli di collaudo, uno senza e uno con equipaggio; più, da due a sei voli operativi. L’idea della Nasa era quella della ridondanza; alternare gli operatori avrebbe per di più scongiurato un monopolio, de facto, di una delle due aziende. Cosa, purtroppo, non ancora avveratasi.

Gli Stati Uniti si devono affidare in toto ai servizi di SpaceX, in attesa che la Starliner entri in servizio. Non sarebbe stato più accettabile, infatti, tornare ad acquistare posti sulle Soyuz russe come nei nove anni precedenti (un obbligo vissuto con un certo grado di umiliazione), soprattutto con un nuovo veicolo pienamente operativo a disposizione.

Per questo, per compensare i ritardi di Boeing, la Nasa ha acquistato altre otto missioni Crew Dragon, aumentando il contratto di SpaceX fino a 4,9 miliardi di dollari. Nel frattempo, secondo le comunicazioni contabili presentate dalla compagnia, a causa dei ritardi accumulati Boeing ha già perso 1,6 miliardi nel progetto Starliner. Significa che i fondi della Nasa (sottoposti a un contratto a prezzo fisso, bene ribadirlo) con buone probabilità non basteranno per rispettare gli impegni presi.

Non è ancora chiaro, per di più, se Boeing dovrà ripetere il volo di qualifica con equipaggio, fatto che andrebbe ad allargare il “buco”. Al computo si aggiunga un altro dettaglio, che forse dettaglio non è: i conti redatti dal Nasa Office of Inspector General (Oig) stimano che il prezzo per un posto sulla Crew Dragon si aggiri attorno ai 55 milioni di dollari. Su una Starliner il costo schizza a 90. Non è un buon viatico in quanto a capacità competitiva, in particolare quando si volessero estendere i trasporti con la Starliner ad altri acquirenti, pubblici, istituzionali e privati.

Lo Space launch system e Ula

Purtroppo per il nuovo amministratore delegato di Boeing, Robert Kelly Ortberg, il pozzo sembra anche più profondo. Perché oltre a Starliner, un’altra preoccupazione affligge la divisione spaziale della compagnia: lo Space Launch System (Sls). Come sottolinea un’analisi di Joey Roulette per la Reuters, sempre il Nasa Oig, ispezionando i conti, ha evidenziato gravi problemi di controllo della qualità e affermato che la forza lavoro di Boeing per l’Sls a Michoud, in Louisiana, “non ha sufficiente esperienza, formazione e addestramento nella produzione aerospaziale”. 

A differenza del Commercial crew program, peraltro, Sls rischia davvero di essere un pozzo profondissimo per le casse pubbliche: l’aumento dei costi per i contraenti (Boeing costruisce il core stage, la parte centrale del sistema di lancio progettato per riportare l’umanità sulla Luna) va a pesare a piè di lista sui conti dell’Agenzia. Boeing si è affrettata a dissentire dall’analisi dell’esperto. Così come ha sempre assicurato che Starliner fosse in grado di riportare a casa Williams e Wilmore senza rischi.

Gli enormi costi per far decollare un Sls, circa due miliardi di dollari, lo rendono forse il lanciatore meno competitivo sul mercato, rispetto a un Falcon Heavy, in futuro a Starship (ancora SpaceX) o a New Glenn (Blue Origin), giusto per circoscrivere la concorrenza agli heavy lift rocket made in Usa. Non è un caso sia stato soprannominato “Senate Launch System” dai detrattori, che vedono in questo progetto uno spreco di denaro approvato per accontentare la filiera dei fornitori storici in ambito spaziale, soprattutto nel sud degli Stati Uniti. Un investimento, insistono gli scettici, animato da un intento politico, da una ricerca di consenso, e che si riversa su un lanciatore nato obsoleto, non riutilizzabile, che addirittura usa i motori del programma Shuttle.
Non è peraltro un segreto che Boeing e Lockheed Martin stiano considerando di vendere la joint venture United Launch Alliance (Ula), uno dei principali competitor di SpaceX nel settore dei lanciatori spaziali. Un modo, forse, per fare cassa e concentrarsi su altro. Rispondendo a una domanda durante la conferenza del 24 agosto, Bill Nelson si è detto “sicuro al cento percento” che Starliner tornerà nello spazio con a bordo degli astronauti. A fronte di quanto speso, è in effetti difficile pensare a una marcia indietro. E comunque, dovesse servire, ci sarebbe sempre SpaceX.



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