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Il “razzo zombie” e l’era dell’in orbit servicing

La compagnia giapponese Astroscale ha fotografato un relitto spaziale in orbita bassa, che presto sarà oggetto di una missione di active debris removal. Sono diverse le missioni già effettuate o prossime al decollo per far fronte a esigenze differenti: dal de-orbiting al rifornimento e alla riparazione.

DI EMILIO COZZI

Il solitario silente.

Si potrebbe intitolare così l’immagine che, se non diventerà iconica, rappresenterà comunque un precedente importante, sorta di spartiacque per una rivoluzione all’apparenza piccola ma sostanziale. Si è entrati nell’era dell’in orbit servicing (on orbit servicing o, semplicemente, satellite servicing) sembra suggerire la foto, quella di un razzo giapponese spento e inservibile che si staglia sul nero del vuoto extra atmosferico, ritratto dal veicolo Adras-J della compagnia giapponese Astroscale, una delle pioniere in questo ambito.

In sé, la foto non è la più nitida delle icone. Si tratta però della prima di un relitto spaziale, in altri termini di spazzatura, inquadrato in orbita da una missione deputata a caratterizzarlo nell’ambito di un programma di pulizia attorno alla Terra.

La cosiddetta “orbita bassa”, in gergo Leo, è la porzione più sfruttata oltre l’atmosfera, quella che si sta progressivamente popolando di satelliti di molte taglie e funzioni, ma anche di carcasse di dispositivi ormai inutili perché giunti alla fine della vita operativa; o di elementi di razzi, come quello giapponese preso di mira da Astroscale, alla deriva dopo aver compiuto il proprio dovere. Sono milioni di frammenti, di taglie e masse diverse, che lungo l’orbita bassa viaggiano a migliaia di chilometri l’ora. Da lì, dalle orbite più prossime alla Terra, presto si inaugureranno attività non solo di rimozione, ma anche di rifornimento e manutenzione. E si alimenterà uno dei settori che promettono un’espansione fra le più considerevoli nella space economy.

 

Dall’uomo al robot

Il concetto di servizio di manutenzione orbitale non è nuovo: le prime missioni di in orbit servicing risalgono agli anni 80 e 90. Erano tuttavia condotte da astronauti, nello specifico della Nasa e a bordo degli Space Shuttle. Il primo esempio riguardò Smm (o Solar Maximum Mission, un satellite dedicato all’osservazione degli eventi solari), avvicinato, acciuffato e riparato nel 1984. Celebri sono state le cinque missioni che avevano come “paziente” il telescopio spaziale Hubble. Il loro costo fu esorbitante, per l’utilizzo di una navetta e un vettore dispendiosi e per l’impiego di personale umano, con gli impliciti requisiti di sicurezza stringenti e impegnativi.

Il primo tentativo riuscito di un dimostratore robotico per questo tipo di missioni fu portato a termine nel 2007 dalla Darpa, un’agenzia governativa del Dipartimento della Difesa statunitense deputata allo sviluppo di nuove tecnologie per uso militare, con una coppia di satelliti (un target da servire e un manutentore) nel programma Orbital Express.

Ai giorni nostri l’esigenza si fa sentire sempre di più. E per motivi anche molto diversi a seconda delle orbite interessate. È però necessario che i costi si abbassino, traguardo raggiungibile proprio perché non servirà più inviare un equipaggio di sette persone con un volo da un miliardo e mezzo di dollari, come nel caso dello Shuttle.

D’ora in poi si punterà sulla robotizzazione, come Astroscale e altri insegnano.

 

Geo e Leo, esigenze diverse

In orbita bassa gli space debris costituiscono una massa non più trascurabile. È lì, appena fuori dall’atmosfera, che si concentrano gli sforzi, in particolare per la rimozione, un tipo di intervento da inaugurare con i “pezzi più grossi”.

Satelliti defunti (circa 2.500), magari da decenni, senza più carburante o capacità di ricevere comandi per un malfunzionamento, oppure, come nel caso dell’oggetto immortalato da Astroscale, di elementi di razzi che non erano progettati per essere manovrati una volta concluso il proprio compito.

Fino a qualche anno fa, non c’erano la sensibilità e la consapevolezza per prevedere un rientro immediato in atmosfera. Per questo, alcuni detriti vagano da decenni (quello stadio del razzo H-2A fotografato da Astroscale è lassù dal 2009) e mettono a rischio altri asset che sfrecciano alla stessa quota su orbite che incrociano la loro. Il problema più pressante, a una altitudine compresa tra i 300 e i duemila chilometri, è proprio questo. La soluzione più semplice ed efficace consiste nell’inviare carri attrezzi che, come spazzini, tolgano di mezzo ciò che è inutile, trascinandolo giù a consumarsi in atmosfera.

A un tempo, l’orbita bassa è anche lo spazio per testare altre manovre di avvicinamento e aggancio, utili per operazioni di re-orbiting e di refueling. Fino alla manutenzione, che sarà possibile in futuro con satelliti progettati e costruiti per essere riparati e riforniti.

La manutenzione e il re-orbiting orbitale costituiscono, invece, un business necessario laddove ci siano investimenti cospicui per singoli satelliti, principalmente in orbita geostazionaria: a 36mila chilometri dalla Terra l’eventualità degli impatti tra satelliti non preoccupa (a quella quota, la velocità relativa si avvicina a zero perché ogni satellite staziona sulla verticale di un punto sulla superficie), ma qualsiasi problema, magari al sistema di propulsione, rischia di mandare in fumo decine di milioni di investimento. Servirebbe un veicolo capace di riportare il cliente nella sua orbita operativa, di rifornire un satellite, oppure di traghettarlo su un’orbita cimitero liberando slot per un rimpiazzo.

Per onor di cronaca, Astroscale non ha fatto una cosa davvero inedita: nel 2020 la missione Extension Vehicle 1 (Mev-1) di Northrop Grumman ha avvicinato, fotografato, e poi traghettato su un’orbita operativa un satellite Intelsat, geostazionario, che aveva quasi finito il carburante e si era per questo parcheggiato a distanza di sicurezza in attesa di essere “servito”. Attaccato al satellite cliente, Mev-1 ha garantito così ulteriori cinque anni di vita operativa a un asset il cui costo si misura in centinaia di milioni di dollari. Fu un’operazione simile a quella conclusa da Mev-2, sempre su un Intelsat, in questa occasione agganciato direttamente su un’orbita operativa, geostazionaria.

 

Le missioni Astroscale

Anche se ha dimostrato di averlo nel mirino, Adras-J non arriverà ad agganciare il razzo che naviga come uno zombie nello spazio. Sono, le sue, prove generali per missioni future. Adras-J è stato infatti selezionato dall’agenzia spaziale giapponese, la Jaxa, per la prima fase del programma “Commercial removal of space debris demonstration”. Nel suo percorso, il satellite ha condotto manovre multiple in un approccio progressivo da circa 200 chilometri ad alcune centinaia di metri, grazie a un algoritmo di navigazione in grado di processare le immagini della camera di bordo.

Di recente, la Jaxa ha selezionato Astroscale per la seconda parte del programma. Un altro satellite simile, Adras-J2, dovrebbe tornare ad avvicinare quello stesso pezzo di ferraglia, agguantarlo e spingerlo fino a farlo deorbitare. Sarebbe il primo tentativo di rimozione attiva di un oggetto così grosso (paragonabile a un silo di quattro metri di diametro, alto come un edificio di tre piani) e, in più, non cooperativo, cioè senza la possibilità di controllarlo o progetti che prevedessero di “maneggiarlo”.

In precedenza, con la missione Elsa-d, Astroscale aveva lanciato in orbita due piccoli satelliti come dimostratori per operazioni di rendez-vous e aggancio.

Quello dell’azienda è un successo ormai planetario: da tempo Astroscale opera anche fuori dal Giappone, in particolare nel Regno Unito, dove sta sviluppando le rimozioni di detriti orbitali Cosmic (Cleaning up outer space mission through innovative capture) per l’Agenzia spaziale del Paese ed Elsa-M insieme con Oneweb per l’Esa (che ci ha messo 15 milioni di euro).

Anche il Cnes, l’agenzia spaziale francese, ha firmato un contratto con la compagnia giapponese per studiare una missione di questo tipo. C’è poi Aps-R (Astroscale prototype servicer for refueling), condotto dalla filiale americana di Astroscale in collaborazione con Orbit Fab. L’attività, in questo caso, comprende il rifornimento nella regione popolata dai satelliti più costosi: in orbita geostazionaria. Prevede un serbatoio, costruito da Orbit Fab, da parcheggiare poco sopra l’orbita e un satellite che faccia la spola per riempire la sua “tanica” e rifornire di idrazina (il carburante tipico usato per le manovre orbitali) gli asset clienti. La Us Space Force avrebbe investito 25,5 milioni nel progetto.

 

Nuovi player e l’economia del futuro

Astroscale è stata fondata nel 2015 e finora ha raccolto poco meno di 400 milioni di dollari in finanziamenti. ClearSpace, realtà svizzera con una filiale nel Regno Unito, ha attratto circa un decimo dei fondi, ma ha già in programma almeno due spedizioni di dimostrazione tecnologica per active debris removal, la prima commissionata dall’Agenzia spaziale europea e l’altra dalla Uk Space Agency.

Sono realtà nuove, che dovranno competere con colossi come le già citate Northrop Grumman e Darpa. Proprio quest’ultima, con una missione programmata nel 2025, punterà al satellite militare Delta 11 della Space Force statunitense per approcciarlo nel modo più raffinato mai tentato in questo tipo di missioni. La missione dovrà applicare al satellite un sensore elettro-ottico di immagini. Comporterà manovre di avvicinamento e aggancio delicate e complesse da attuare con bracci robotici sviluppati dalla stessa Darpa e dal Naval Research Laboratory.

In Italia, nel 2023 l’Agenzia spaziale italiana ha firmato un contratto con Thales Alenia Space, compagnia a capo di un raggruppamento temporaneo d’imprese cui fanno parte le aziende Leonardo, Telespazio, Avio e D-Orbit, per una missione dimostrativa di in orbit servicing da 235 milioni di euro con fondi del Pnrr. Le tecnologie da validare saranno quelle di rifornimento, riparazione o sostituzione di componenti, trasferimento orbitale e rientro in atmosfera.

Anche in questo caso, il supporto pubblico aprirà una porta ai privati verso il futuro del mercato che, in questo settore, promette di valere dai 2,5 ai 5 miliardi di dollari nel prossimo decennio.

Per questo quel “solitario silente”, in realtà, dice molto.



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