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Cara Europa, la Luna è del Sol levante

Il primo non americano sul suolo selenico, nell’ambito del programma Artemis, sul suolo selenico sarà giapponese. Lo ha annunciato Joe Biden il 10 aprile, cementando un’alleanza che dura da oltre 70 anni e che ha ragioni geopolitiche oltre che tecnologiche. L’accordo, firmato nello stesso giorno di 70 patti di collaborazione militare, prevede la consegna di un rover pressurizzato Made in Japan.

DI EMILIO COZZI

In Europa la notizia è arrivata come uno schiaffo: nell’ambito del programma Artemis, la prima persona di nazionalità non americana a lasciare un’orma nella polvere lunare sarà giapponese.

Lo ha annunciato il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, durante la visita del primo ministro del Giappone, Fumio Kishida, alla Casa Bianca, il 10 aprile. È il culmine di una collaborazione tra i due Stati, anche nel settore spaziale, che prende corpo con un accordo siglato il giorno prima dall’amministratore della Nasa, Bill Nelson, e dal ministro nipponico dell’Educazione, cultura, sport, scienza e tecnologia (Mext), Masahito Moriyama.

Nel testo dell’agreement l’agenzia spaziale giapponese, la Jaxa, si impegna a fornire al programma Artemis un rover pressurizzato per l’esplorazione lunare. In cambio, ottiene per il Paese del Sol levante “due opportunità di volo di astronauti sulla superficie lunare”, di cui una permetterà a una donna o a un uomo di entrare nella storia. Le ragioni riguardano l’impegno del Giappone in ambito spaziale, sebbene siano forse più geopolitiche che tecnologiche.

Jaxa dovrà progettare il Lunar Cruiser, un veicolo che gli astronauti guideranno sulla Luna. A differenza dei Lunar Terrain Rover, le nuove “Moon buggy” per le quali la Nasa ha pubblicato un bando destinato ai privati, i Lunar Cruiser giapponesi saranno veicoli chiusi e pressurizzati. Al loro interno sarà quindi possibile operare senza tuta e casco.

L’accordo non precisa le date; la  tempistica delle opportunità di volo, si legge, sarà “determinata dalla Nasa in linea con i processi esistenti di manifestazione di volo e di assegnazione dell’equipaggio e terrà conto dei progressi e dei vincoli del programma, della richiesta del Mext di assegnare il prima possibile gli astronauti giapponesi alle missioni sulla superficie lunare e delle principali pietre miliari del PR – il rover pressurizzato – come ad esempio il momento del primo dispiegamento del PR sulla superficie lunare”. Sarà tutto vincolato, a quanto pare, ai progressi nello sviluppo del rover, che dovrebbe essere trasportato sulla superficie lunare in anticipo su Artemis 7, al momento fissata non prima del 2031.

È però probabile che, per allora, lo storico allunaggio di un o una astronauta giapponese sia già avvenuto. Come ha notato Space.com, a fine 2023 la vicepresidente statunitense, Kamala Harris, ha dichiarato al National Space Council Meeting che un astronauta internazionale scenderà sulla Luna entro la fine del decennio.

Quando, è ancora difficile dirlo, visto che prima occorre sistemare alcune tessere del mosaico Artemis – e non poche – a cominciare da Artemis 3, la terza missione del programma e la prima a contemplare l’allunaggio umano. Oggi prevista alla fine del 2026, necessiterà della piena operatività della Starship di SpaceX, oppure di un piano B, cioè di un altro lander.

È già previsto che l’equipaggio di Artemis 3 sia costituito interamente da cittadini statunitensi, compresa la prima donna a scendere sulla Luna e il primo astronauta non bianco. La prima ipotesi valida per l’allunaggio di un o una giapponese sarebbe quindi Artemis 4, a oggi fissata nel 2028 e con un equipaggio nel quale dovrebbe figurare anche un astronauta europeo. Lo aveva rivelato, nel luglio del 2023, Josef Aschbacher; in quell’occasione, il direttore generale dell’Esa aveva anche aggiunto che un altro astronauta europeo sarebbe previsto in Artemis 5.

 

Giappone alleato strategico

Come già scritto, l’accordo è imperniato sulla consegna del Lunar Cruiser, un veicolo alimentato a celle a idrogeno al quale, da anni, sta lavorando Toyota. L’agreement tra Stati Uniti e Giappone è il frutto di una collaborazione che perdura dal 1951, quando in cambio della piena sovranità Tokyo firmò il “Security Treaty” che lega i due stati soprattutto in chiave anti-comunista, prima, e anti-cinese, oggi.

Impossibile non inserire nel contesto il fatto che a Washington, il 10 aprile, si sono firmati anche settanta nuovi patti di cooperazione per la difesa, in quella che la Casa Bianca ha definito “una nuova era di collaborazione militare”. Da decenni il Giappone è una testa di ponte americana in estremo oriente, strategicamente molto rilevante ora che gli equilibri della politica internazionale sono particolarmente instabili e che la concorrenza cinese, militare, tecnologica e spaziale, agita sempre di più i sonni sull’altra sponda del Pacifico.

Nello spazio, in particolare, lo scambio tecnologico è stato significativo: la Jaxa ha contribuito alla Stazione spaziale internazionale con il modulo Kibō, il più grande ambiente per esperimenti dell’avamposto orbitante, e due anni fa ha garantito il proprio contributo al programma Iss fino al 2030. Il Giappone è stato tra i primi Paesi a sottoscrivere gli accordi Artemis per la pacifica esplorazione della Luna e ha inaugurato una collaborazione deputata a fornire elementi essenziali alla costruzione e al funzionamento del Lunar Gateway, la stazione in orbita lunare che la Nasa prevede di rendere operativa dal 2028. C’è anche questo dietro alla bandiera che il Giappone intende piantare, su un altro mondo, accanto a quella statunitense.

 

Le ragioni dell’Europa

Buona parte dei segmenti della Iss e dello stesso Lunar Gateway è in realtà Made in Europe. Anche il “Vecchio continente”, inteso come Paesi membri dell’Esa, ha rapporti stretti di collaborazione con Washington, sia in campo militare (sono quasi tutti membri della Nato e i più importanti hanno firmato gli accordi Artemis) che spaziale. Basti pensare al modulo di servizio della capsula Orion, non a caso chiamato European Service Module, che sosterrà il pieno funzionamento del veicolo e permetterà la sopravvivenza dei suoi occupanti nei trasbordi da e verso la Luna.

Oltre a scendere sulla superficie selenica, le missioni Artemis contribuiranno all’assemblaggio del Lunar Gateway, progetto guidato dalla Nasa cui collaborano, oltre all’Esa e al Giappone, anche il Canada e gli Emirati Arabi Uniti.

Nel 2028, Artemis 4 inizierà portando il Lunar I-Hab (International Habitat) ad agganciarsi al Power and Propulsion Element e all’Habitation and Logistics Outpost, moduli americani già lanciati in precedenza. La missione Artemis 5, nel 2030, consegnerà invece il modulo Lunar View. Sono, questi, elementi costruiti in Europa – con un forte contributo italiano – per la quasi totalità e forniti dall’Agenzia spaziale europea. Difficile che in queste due missioni non figuri un astronauta europeo.

Non è quindi da escludere che a Parigi, al quartier generale Esa, l’annuncio del 10 aprile sia stato accolto con una certa sorpresa e non meno disappunto.

L’Italia, con Samantha Cristoforetti e Luca Parmitano, la Francia, con Thomas Pesquet e la neo-selezionata Sophie Adenot, e la Germania con Alexander Gerst e Mathias Maurer, sono i tre Paesi che avevano più chance di poter essere i primi non americani a vedere un proprio astronauta sulla Luna. In ragione del suo contributo, l’Esa ha ottenuto tre posti nelle prime missioni di Artemis, due destinati al Gateway e uno all’allunaggio; resta da capire quando avrà la possibilità di vedere una o un proprio astronauta camminare sulla regolite. È, in tutta evidenza, anche una questione di prestigio.

Alla luce di quanto rivelato da Biden, un’ipotesi sarebbe quella di avere equipaggi misti con due astronauti americani e due internazionali, oppure un cambio della loro composizione. Il tempo per decidere non manca. E anche quello per cambiare i piani che oggi prevedono equipaggi Artemis composti da quattro astronauti, due dei quali deputati a scendere sulla superficie selenica e due destinati a restare in orbita. Orion, la capsula per decollare dalla Terra a bordo dello Space Launch System, ha quattro sedili. Starship, di contro, è enorme e spazio per imbarcarne di più ne avrebbe.

In fondo il futuro è tutto da immaginare.



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