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Così lo spazio è diventato più economico. Parte 1 – I satelliti

Miniaturizzazione, riduzione di peso e volume, abbattimento dei costi di lancio fanno sì che le tecnologie spaziali siano alla portata di startup, istituti di ricerca e Paesi emergenti. Gioca un ruolo anche la domanda sempre più massiccia di servizi satellitari, che traina gli interessi degli investitori

DI EMILIO COZZI

L’esempio più calzante è quello dei telefoni portatili, che solo molto dopo la loro comparsa sarebbero diventati “smartphone”.

La prima telefonata mobile, infatti, è storia di quasi ottant’anni fa: il 17 giugno del 1946 la Southwestern Bell, una delle compagnie locali della AT&T, testò a Saint Luis, Missouri, una tecnologia allora pesante 36 chilogrammi e con un volume pari a quello del bagagliaio di un’auto. Il progresso, per la telefonia, è stato lento. I primi cellulari propriamente detti fecero l’ingresso nel mercato all’inizio degli anni 70. Salvo poi accelerare negli ultimi decenni fino a mettere in tasca a tutti dispositivi in grado di chiamare e videochiamare, con app che fanno pressoché tutto e con una capacità di calcolo e memoria che fa impallidire, secondo il ben noto paragone, il computer di bordo che portò Neil Armstrong e Buzz Aldrin sulla Luna.

Paragone pertinente, visto che anche le prossime righe si dedicheranno allo spazio e a come il progresso tecnologico abbia reso molto più economico l’accesso all’orbita.

Tuttavia, se il grande passo verso questa “democratizzazione” si deve soprattutto alla caduta, in picchiata, del costo al chilo per portare in orbita il proprio payload, il ragionamento richiede un passo indietro, cioè dentro alle fabbriche dove i satelliti vengono costruiti.

Raccontare ogni categoria di satellite e la svolta della miniaturizzazione richiederebbe lo spazio di una piccola enciclopedia. Si cominci, allora, da un dato semplice: il 2023 è l’anno in cui si sono lanciati più payload. In tutto quasi 2.900, secondo le meticolose statistiche compilate dall’astrofisico Jonathan McDowell. Oltre duemila sono quelli della sola costellazione Starlink. E anche loro costituiscono una parte importante di questo, complesso, discorso. Bryce Technology, nel suo rapporto annuale (l’ultimo disponibile è del 2022, a sua volta un anno record, con circa 2.500 satelliti dispiegati) stima che il 96% fosse costituito da small satellites, con una massa compresa tra pochi chili e i sei quintali. Il ventaglio è ampio, ma si pensi che prima della new space economy, i satelliti erano perlopiù macchine grandi come un Suv e altrettanto pesanti, con costi che arrivavano alle decine o centinaia di milioni di euro. E forse, proprio perché sulla Terra tutto procedeva in quella direzione, a cominciare dai telefoni e dai pc che mentre si riducevano in dimensioni aumentavano in capacità di calcolo, i satelliti non potevano non percorrere la stessa strada.

Per decenni, l’industria spaziale si è affidata a componenti costosi, appositamente progettati e “classificati” per lo spazio. Componenti che erano – e ancora sono, quando si tratti dell’avanguardia tecnologica o di esigenze particolari, come per le missioni sulla Luna o le sonde sperimentali – prodotti in piccoli lotti con poca o nessuna economia di scala. Quel che è cambiato, di pari passo con l’interesse verso l’economia spaziale e in un circolo virtuoso che si è autoalimentato, è la standardizzazione e le tecnologie commercial-off-the-shelf, reperite sul mercato e non sviluppate ad hoc. L’abbondanza d’uso ha agito sull’economia di scala portando i piccoli componenti satellitari a diventare più accessibili e beneficiando della miniaturizzazione, di prestazioni sempre più elevate e delle dinamiche produttive degli smartphone e di altre tecnologie di massa.

In poco tempo si è arrivati ad avere satelliti con prestazioni altissime, grandi quanto una lavatrice o un forno a microonde; quindi ai cubesat, cubi dal lato di pochi centimetri, dentro ai quali entrano comodamente una camera ad alta risoluzione, un processore, un’antenna e una batteria, coperti di piccoli pannelli solari (il cui costo è precipitato proprio negli anni recenti). Nel processo hanno giocato fattori diversi, pronti a influenzarsi l’un l’altro. La miniaturizzazione ha infatti ridotto, insieme con i costi, il volume e il peso degli apparati. Non è un dettaglio, in particolare quando si considerino i prezzi di lancio al chilo (che pure sono crollati, come le prossime righe ribadiranno). De facto, la componente off-the-shelf – letteralmente, acquistare “dallo scaffale” componentistica standard, anche non validata per l’uso extra-atmosferico – ha permesso un risparmio enorme in termini di sviluppo. Una voce, quest’ultima, che può pesare molto in quanto a tempo e risorse impiegate.

Il risultato è che i prezzi attuali, per i cubesat più economici, possono arrivare a poche migliaia di dollari.

 

La speranza di vita

L’altra faccia della medaglia è rappresentata dall’affidabilità: satelliti di dimensioni ridotte, che sfruttano componenti non studiate e validate per lo spazio o per una specifica missione, con materiali meno performanti e, ancora, senza la tipica ridondanza dei sistemi (batterie, circuiti, processori e computer di bordo) capace di fronteggiare un malfunzionamento con soluzioni “di riserva”, hanno “speranza di vita” media più bassa. In questo caso, la scelta è condizionata dall’importanza del compito. Se da un lato significa che i dispositivi in orbita avranno performance e durata mediamente più basse, dall’altra queste soluzioni hanno consentito l’accesso oltre l’atmosfera alle università e ai centri di ricerca, alle nazioni emergenti in campo spaziale, e alle startup.

L’accento su queste ultime è d’obbligo. Semplicemente perché ora è davvero un altro mondo. Piccole e medie imprese si possono permettere di progettare e costruire smallsat e raccogliere fondi milionari per attuare il proprio business plan senza passare da quello che fino a pochi anni fa sarebbe stato un doppio collo di bottiglia: l’investimento pubblico nell’idea, e la disponibilità di un lanciatore che la traghettasse oltre il cielo. Il mercato degli investimenti spaziali ha allargato il primo e i privati in competizione nel settore dei lanciatori il secondo. Solo in Europa, conferma un report dell’Agenzia spaziale europea, nel 2022 si è superata la soglia di un miliardo di investimenti in questo settore. Detto altrimenti, fiducia e mercato non difettano.

Ci sono esempi illustri come Iceye, azienda finlandese che ha costruito una costellazione privata di “microsatelliti” (al di sotto dei 100 chili) con radar ad apertura sintetica, i primi così piccoli a portare a bordo la tecnologia strategica per il monitoraggio del territorio.

A dispetto delle controindicazioni, per i satelliti low-cost, un’azienda italiana, che ormai è impossibile chiamare startup, Argotec, ha sviluppato un modello di sonda (la piattaforma si chiama Hawk) che ha operato in due missioni Nasa nello spazio profondo. Ha agito da “testimone oculare” riprendendo le operazioni della missione Artemis I e del vettore Space Launch System, e ha testimoniato l’impatto della sonda Dart sull’asteroide Dimorphos, scelto per un test di difesa planetaria. Tutto grazie a un parallelepipedo grande quanto una scatola di stivali.

Non è da escludere, e anzi prevedibile, che Argotec presto inaugurerà una produzione in serie. E questo abbatterà i costi. Così come abbatte i costi, in maniera brutale, SpaceX, che sforna oltre un centinaio di satelliti Starlink ogni mese. E che, nel mentre, ne lancia altrettanti. Gli Starlink hanno una massa di pochi quintali (quelli di nuova generazione dovrebbero essere molto più pesanti); l’economia di scala, in questo caso, esprime tutto il suo potenziale. E la già citata bassa vita media degli smallsat fa sì che gli Starlink vengano di continuo “decommissionati” e sostituiti, per far crescere e mantenere una rete orbitale composta da migliaia di dispositivi. Non è una tecnologia usa e getta, ma gli somiglia molto.

Rimane un altro fattore da considerare: la fiducia che, ormai da diversi anni, permea il mercato. Fiducia che, sebbene altalenante, si esprime in miliardi di dollari a livello globale: 15,3 nel 2021, 9,3 nel 2022 e 12,5 l’anno scorso. Il settore trainante rimane quello delle comunicazioni e telecomunicazioni, che valgono l’84% della manifattura e dei servizi satellitari; secondo l’ultimo rapporto di Euroconsult, ben il 98% delle revenue di servizi satellitari arriva da comunicazioni e navigazione. Si tratta, nella fattispecie, perlopiù di satelliti di grosse dimensioni – le tv, per esempio, trasmettono usando apparati imponenti in orbite geostazionarie – che richiedono affidabilità e durata. Non è un caso: si pensi a quanto sia strategico il posizionamento per i militari e per il traffico aereo e navale civile. La domanda genera mercato e richiama investitori, aumenta la produzione e i costi si abbassano.

In questo caso vale la pena citare un dato: secondo un’analisi di Bryce Space Technology, tra il 2013 e il 2021 il throughput complessivo per chilogrammo di peso del satellite per comunicazioni è aumentato di sei volte. Significa che a parità di peso, l’apparato orbitante trasmette una quantità di dati sei volte maggiore. Nello stesso periodo, il costo di produzione per Gbps di capacità è diminuito del 90%. Grazie a questi miglioramenti produttivi, il servizio satellitare costa oggi un decimo di quanto costava nel 2013 e il numero di abbonati alla banda larga satellitare è aumentato del 50%. Si prevede che i costi continueranno a diminuire quando decine di piccoli veicoli di lancio e diversi razzi medio-pesanti di nuova generazione diventeranno operativi. Succederà tutto nel giro di pochi anni.

Un esempio che si inserisce alla perfezione è quello di Capella Aerospace, azienda di San Francisco che produce satelliti con radar ad apertura sintetica (Sar). Quelli di nuova generazione, gli Acadia, pesano oltre mezzo quintale in più dei loro predecessori (165-187 contro 112 chili), cosa che però non implica un costo ulteriore perché Capella acquista dalla neozelandese Electron un lancio dedicato. Come ha spiegato a Space.com il chief technlogy officer dell’azienda, Christian Lenz, “la massa non è più importante; cose come la potenza, le prestazioni, e la durata operativa contano di più”. Il vettore Electron è l’esempio dell’altro fattore che ha cambiato le carte in tavola in questi ultimi dieci anni: il trasporto spaziale. Il secondo capitolo di questa storia.



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