fbpx

Severa maestra Luna. Tornati sulla Luna come non ci fossimo mai stati

Le ultime imprese, i fallimenti, i successi a metà. C’è chi si chiede ancora, impropriamente, se davvero ci siamo mai stati. Altri si chiedono perché è così difficile ripetere cose fatte quasi 60 anni fa. La risposta è che è un po’ tutto nuovo. Tecnologia e intenti: come la sostenibilità di un business

EMILIO COZZI

Una sonda a testa in giù viene accolta da una standing ovation. E un’altra, piegata su se stessa a causa di una gamba rotta, come un automa mutilato nel tentativo di una storica impresa, accende il collettivo giubilo.

Sì è tornati sulla Luna come non ci fossimo mai stati”, azzarda (o insinua) qualcuno. Poco di cui sorprendersi. Serpeggiano sempre, senza la legittimità per accedere a un dibattito pubblico, perché dibattito non ci può essere; chiamiamoli dubbi, nel caso se ne volesse dare una definizione neutra. Anche se, più aderente al vero, sarebbe definirli complottismi.

Sono narrazioni, racconti, che latenti dentro nicchie sparute hanno trovato, pian piano, un consenso più largo, come si trattasse di movimenti politici (e in qualche modo la politica c’entra, ma non è questo il contesto in cui disquisirne).

Sono credenze, convinzioni, opinioni. Tutte contrapposte ai fatti. Che, talvolta, capita incontrino onde mediatiche su cui surfare. Per esempio, quando una serie di missioni lunari finisce in un mezzo disastro, oppure non la si celebra come un nuovo, grande successo, per mettere in dubbio una verità storica: siamo stati sulla Luna, nel 1969 per la prima volta e poi altre cinque, fino al 1972.

Qualche ragionevolezza sussiste invece tra chi, un po’ ingenuamente, si chiede: “Siamo stati sulla Luna più di mezzo secolo fa; com’è possibile sia così difficile tornarci?”.

La verità è che la Luna non è una passeggiata, in particolare se, come questa volta, ci si torna con obbiettivi – “per restare” – mezzi e modi diversi. E sebbene lo si sia già scritto su queste pagine, vale la pena tornarci per aggiungere qualche dettaglio.

Si riparta da Apollo.

Erano tempi, gli anni Sessanta, in cui i rischi presi per conquistare il cosmo erano alti. Proprio che si possa parlare di “conquista”, per la natura politico militare dello sforzo spaziale di allora, giustificò una tolleranza impressionante dell’errore.

Quando il 5 maggio del 1961, Alan Shepard, il primo statunitense a farlo, volò oltre il cielo nella missione Mercury-Redstone 3 (o MR-3), il vettore che lo portò nello spazio aveva una percentuale di esplosione al decollo superiore al 57%. Il successo dell’Apollo 11, cioè la probabilità che la missione raggiungesse la Luna, vi si appoggiasse e riportasse a casa, sano salvo, il suo equipaggio, era stimato al 50%. Un caso su due.

Oggi sarebbe inaccettabile: quando, nel maggio del 2020, dopo circa un decennio di “passaggi russi”, SpaceX riportò nello spazio gli Stati Uniti con un veicolo statunitense, le modellizzazioni statistiche attribuivano alla Crew Dragon meno di una possibilità su 270 di fallire. E non mancò chi fece notare come la percentuale non fosse poi così rassicurante, visto il numero crescente di lanci previsto nell’immediato futuro.

Detta in breve, è cambiato tutto.

Durante la prima space race verso la Luna, la competizione fra Stati Uniti e Unione Sovietica dettava tutt’altre priorità, obbiettivi cui far fronte a qualsiasi costo. Compreso quello della vita.

In quell’epoca, gli ingegneri della Nasa ispezionavano le strutture con in mano una scopa, un “sensore” low tech ma efficace per individuare le fughe di idrogeno (la cui fiamma, in combinazione con l’ossigeno, è invisibile). Se la scopa prendeva fuoco, meglio allontanarsi.

Il glorioso programma lunare statunitense fu a un passo dall’epilogo prematuro dopo la tragedia dell’Apollo 1, un incendio all’interno della cabina satura di ossigeno durante un test a terra, nel quale persero la vita tre astronauti: Virgil Grissom, Edward White e Roger Chaffee.

È tutto nei libri di storia: Neil Armstrong e Buzz Aldrin bisticciarono con il computer di bordo e dovettero penare per trovare, tra i massi del Mare della Tranquillità, uno spiazzo adatto all’allunaggio. L’”Aquila”, controllata manualmente da Armstrong, toccò la superficie quando aveva quasi esaurito il carburante disponibile. Qualche secondo di più e sarebbe stata obbligata a risalire verso il Lem in orbita, dove la aspettava Collins.

Due fulmini nella fase di ascesa mandarono in tilt i sistemi dell’Apollo 12; l’intuizione di un ingegnere a terra – le criptiche parole “Try SCE to AUX”, interpretate correttamente da Richard Gordon – evitò ad appena due minuti dal decollo l’innesco dell’abort system, che avrebbe proiettato la capsula lontano, sebbene il razzo salisse senza intoppi.

L’odissea dell’Apollo 13 è ben nota e i problemi non mancarono nemmeno nelle tre missioni successive.

Andrebbe peraltro ricordato che Apollo fu un programma sostenuto da finanziamenti pantagruelici – in quegli anni la Nasa arrivava ad assorbire il 5% del bilancio statunintense – rispetto a quelli di cui oggi gode Artemis (che è uno dei programmi di una Nasa in grado di attirare, sì e no, l’1% del budget federale). E per di più, oggi, l’impegno (anche economico) tende a ridurre qualsiasi rischio allo zero.

Sessant’anni fa chi volava nello spazio era un pioniere, un eroe destinato alla gloria, sempre e comunque; tanto da considerare l’eventualità di perire nell’esplorazione dell’ignoto come qualche cosa di ammesso e, just in case, ammirevole. È indicativo che Richard Nixon si fosse fatto scrivere un discorso da pronunciare nel caso in cui Aldrin e Armstrong, sulla Luna, ci fossero rimasti.

Un’ipotesi che oggi nessuno considererebbe plausibile, figurarsi accettabile. Per paradosso, il successo di Apollo ha alzato così tanto l’asticella da rendere inammissibile qualsiasi fallimento.

Oggi sì, failure is not an option.

Anche per questo, prima di riportarci l’Umanità, sulla Luna si spediscono i robot. E non che tutto, comunque, fili liscio: fra gli allunaggi tentati nell’ultimo decennio o giù di lì, i successi si contano sulle dita di una mano: ci sono i tre lander e i rover cinesi delle missioni Chang’e 3, 4 e 5, che hanno reso la Cina il terzo Paese ad aver appoggiato in modo soft (e con successo) un apparato sul suolo selenico, il primo ad allunare sull’emisfero nascosto e il primo, dopo la sovietica Luna 24 nel 1976, a portare campioni di polvere e suolo lunare sulla Terra. C’è riuscita l’India, con Chandraayan 3, nell’agosto del 2023, proprio mentre falliva il primo tentativo russo da 47 anni. Due missioni giapponesi e una israeliana sono andate incontro a un epilogo catastrofico, e così anche il primo nuovo balzo a stelle-e-strisce: il lander Peregrine della privata Astrobotic, decollato a gennaio 2024, ha visto il proprio destino segnato subito dopo la separazione dal proprio razzo, un Vulcan Centaur, a causa di un guasto al sistema di propulsione. Peregrine era nato sotto l’egida della Nasa, con i finanziamenti del Commercial Lunar Payload Services (Clps) con cui l’agenzia spaziale americana intende far salire sulla nuova carovana lunare anche i privati.

Negli stessi giorni, il Giappone è arrivato quinto nella speciale classifica degli approdi lunari. Ma anche in questo caso il successo è stato macchiato da un incidente di percorso: il lander Slim si è ritrovato sottosopra, in una posizione che ha impedito ai suoi pannelli solari di produrre tutta l’energia prevista. È stata una missione di successo (soprattutto per l’Agenzia spaziale nipponica, la Jaxa, al primo tentativo dopo il fallimento della privata Hakuto-R), che ha tuttavia dimostrato quanto fosse difficile arrivare “dritti”. Poi è arrivato Odysseus, seconda missione Clps, e primo successo statunitense dal 1972, portata a segno da Intuitive Machines. E nonostante la zampa spezzata durante la discesa, che ha portato il lander a coricarsi impedendone alcune attività.

Di nuovo un epilogo goffo, sghembo, non certo il glorioso ritorno alla Luna che gli Stati Uniti attendevano.

Il fatto è che dopo sessant’anni è cambiato tutto. Siamo sulla Luna: niente atmosfera, i paracadute non servono. Occorre frenare con i razzi, cioè applicare potenza attiva che va direzionata. Bisogna mirare bene, impossibile procedere alla cieca come attraverso le nubi di Venere. Il primo obiettivo, peraltro dichiarato più volte, è mettere a punto un sistema di allunaggio automatico affidabile, che non fallisca. C’è ancora strada da fare. I primi allunaggi autonomi, senza un controllo umano, furono messi a segno da parte del rover Surveyor della Nasa, i cui retrorazzi si attivavano usando un radar come altimetro. Adesso bisogna fare di più.

I nuovi lander sfruttano tecnologie molto più sofisticate di un altimetro. Hanno camere, laser e sistemi di riconoscimento del suolo per scegliere il luogo più adatto su cui posarsi. Chandraayan 3 possedeva un sistema di analisi in tempo reale delle immagini e algoritmi per decidere dove spostarsi in cerca del suo posto al Sole. Per gli altri, qualcosa non ha funzionato. E non c’è da stupirsi. Prendiamo in prestito la riflessione dell’ex direttore generale dell’Esa, Jan Wörner, al Guardian, proprio per rispondere a questi interrogativi: “Si è sempre vicini al fallimento, perché bisogna essere leggeri o il veicolo spaziale non volerà. Non si può avere un grande margine di sicurezza“.

Inoltre, quasi ogni veicolo spaziale è un prototipo, non ci sono collaudi, come avviene per esempio con i razzi o con sistemi prodotti in serie: “Se hai un problema con la tua auto, puoi farla riparare, ma nello spazio non ci sono opportunità“, dice Wörner. “Lo spazio è una dimensione diversa“.

In aggiunta al risparmio di peso, le aziende che partecipano al Clps sono spinte a fare molto con risorse limitate, a tagliare i costi, proprio perché il senso dello spazio, in questi anni 20 del 2000, si deve inverare nella luce della sostenibilità. In altri termini, del business. E si torna ai denari e ai paragoni che non si possono fare. Perché siamo tornati sulla Luna come non ci siamo mai stati prima.



This website uses cookies and asks your personal data to enhance your browsing experience.