- January 19, 2024
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- Category: Emilio Cozzi
I motivi tecnici dello slittamento delle missioni del programma lunare statunitense vanno inquadrati in un contesto e condizioni molto diverse dai tempi dell’Apollo. Tornare sulla Luna non è uno scherzo, soprattutto se si va per restare.
DI EMILIO COZZI
L’annuncio arrivato dalla Nasa il 9 gennaio era atteso da molti, quasi tutti: il primo equipaggio ad affrontare la traversata dalla Terra alla Luna dopo oltre mezzo secolo, con la missione Artemis 2, non decollerà a fine 2024, bensì non prima di settembre 2025. Il prossimo sbarco umano sulla superficie selenica, a oggi previsto con Artemis 3, non avverrà prima del settembre 2026.
Slitta tutto di dieci mesi, almeno. Tornare sulla Luna nel Ventunesimo secolo sembra, per paradosso, più complicato rispetto a quanto fatto negli anni 60 del Ventesimo. Via dalle apparenze e da cosa sembri o si dica, la verità è che l’avventura in corso è molto più complessa e per molti motivi diversi.
Anzitutto per quanto riguarda i fondi, l’impegno economico da parte del governo statunitense, che in piena guerra fredda fu mastodontico: arrivò ad assorbire il 5% delle risorse federali, mentre oggi è compreso fra l’0,5 e l’1%. Non meno importanti, e differenti, sono le condizioni geopolitiche: conquistato il primato strategico in palio nel 1969, oggi la potenza si misura non tanto su chi alluni per primo, ma più sui ritorni commerciali, tecnico-scientifici, sull’implicita capacità militare e cyber. Tradotto in soldoni – stricto sensu – il nostro satellite naturale sembra davvero molto più lontano.
Non che stavolta i contendenti per una nuova “gara” manchino, anzi: il più arcigno, almeno da una prospettiva occidentale e americano-centrica, bene precisarlo, è la Cina di Xi Jinping. Da questo punto di vista la sfida è simile a quella con l’Unione Sovietica di Nikita Kruscev. Come premesso, è il budget a essere enormemente diverso: secondo un’analisi dell’indipendente Planetary Society, il programma Apollo e, in generale, lo sforzo per andare sulla Luna, costarono ai contribuenti americani 280 miliardi di dollari in tutto (aggiustati all’inflazione del 2020). Furono missioni “toccata e fuga”, con una permanenza di tre giorni al massimo sulla superficie. Oggi gli obbiettivi sono altri: il programma Artemis costerà, fino al 2025, 93 miliardi di dollari e sebbene sulla Luna ancora non ci sia tornato nessuno, è questione di concept, oltre che di strategia (a quanto pare non perfetta). L’amministratore della Nasa, Bill Nelson, ha avuto ragione quando, in conferenza stampa, ha ricordato che “torneremo sulla Luna come non abbiamo mai fatto”.
I ritardi di Artemis
Amit Kshatriya, vice amministratore associato dell’ente spaziale americano per il programma Moon to Mars – di cui Artemis costituisce una parte – ha elencato i motivi che hanno portato alla decisione di posticipare il lift-off dei prossimi equipaggi lunari: prima di tutto l’inaspettata erosione dello scudo termico della capsula Orion durante il rientro di Artemis 1, nel dicembre del 2022. Era noto e gli ingegneri Nasa stanno lavorandoci da un anno, speranzosi di comprenderne le cause entro la primavera, ha detto Kshatriya.
Poi le criticità emergenti: i problemi al sistema di supporto vitale della capsula designata per Artemis 3, la prima missione con equipaggio destinata ad allunare. Le ispezioni dell’hardware per la navicella hanno rivelato un difetto di progettazione nei circuiti che azionano le valvole. “L’elettronica delle valvole influisce su molte parti del sistema di supporto vitale della navicella, compresi i sistemi di rimozione dell’anidride carbonica” si è spiegato.
Per questo, sebbene i componenti della valvola per Artemis 2 avessero superato le verifiche e fossero già stati installati, Kshatriya ha dichiarato che alla Nasa è apparso inaccettabile usare quell’hardware; si è resa necessaria la sostituzione.
Un terzo problema è legato all’abort system di Orion, che consente alla capsula di proiettarsi lontano in caso di anomalie durante il lancio. “La sicurezza è la nostra priorità assoluta – ha concluso Nelson – per dare ai team di Artemis il modo di affrontare le sfide legate ai primi sviluppi, alle operazioni e all’integrazione, concederemo più tempo ad Artemis 2 e 3“.
E poi, sì, c’è tutto il resto.
I privati e la sfida al polo sud
C’è un programma così diverso da Apollo da rendere improprio qualsiasi paragone. Come ha fatto notare il fisico ed ex presidente dell’Agenzia spaziale italiana, Roberto Battiston, intervistato da Repubblica, “la complessità del progetto Artemis è assai superiore a quella delle missioni Apollo. Negli anni Sessanta si concepirono spedizioni che puntavano a brevissimi soggiorni degli astronauti sul suolo lunare per poi riportarli sulla Terra. Oggi, invece, si vuole andare sulla Luna per restarci: dunque occorre progettare razzi più potenti, capaci di trasportare persone e attrezzature, ed è soprattutto per quest’ultimo aspetto la Nasa si è rivolta a SpaceX”.
Ecco, SpaceX, per più di un aspetto l’elefante nella stanza lunare: in attesa del terzo tentativo di lancio orbitale di Starship – ne avevamo scritto più diffusamente qui – e dopo le esplosioni che hanno fatto da epilogo ai primi due decolli, avvenute quando l’astronave era ancora sulle acque del Golfo del Messico, a molti è parso chiaro che la compagnia di Elon Musk non sarebbe stata in grado di consegnare alla Nasa un veicolo certificato per scendere sulla Luna entro la fine del 2025, data originariamente prevista per Artemis 3. Non ha pesato poco lo stop di mesi seguito al primo lift-off, quando i seri danni alla rampa di Boca Chica avevano motivato un’inchiesta della Federal Aviation Administration (la Faa) e tante proteste da parte degli abitanti della zona e degli ambientalisti.
Non bastassero quelle elencate finora, c’è un’altra tessera del mosaico: per portare a termine il suo compito lunare, è previsto che Starship faccia rifornimento in orbita, perché la maggior parte del suo propellente sarà consumato nello sforzo di vincere la gravità terrestre e portare in orbita la sua mole enorme (è il veicolo spaziale più grande e pesante mai costruito, con mille metri cubi di capacità interna).
Servirà un numero di lanci nell’ordine dei “teens” – fra i 13 e i 19 – ha ammesso la vice president of Customer operation and integration di SpaceX, Jessica Jensen, incalzata anche da Bill Nelson nel dare una risposta. Quanti esattamente, ha specificato, non si sa ancora, perché ci sono diverse configurazioni e dipende da quanto carburante sarà possibile trasferire a ogni rifornimento. Le astronavi, la Starship per l’equipaggio e la cisterna, dovranno avvicinarsi e agganciarsi in orbita, molte volte. Ed è questa una delle differenze più grandi rispetto ai lanci delle Apollo: a secco, Starship ha una massa di circa 100 tonnellate, ben oltre lo spacecraft Apollo a pieno carico. Quando decolla, sulla rampa pesa 5mila tonnellate, più del doppio dello Space Shuttle. Una volta effettuato il pieno in orbita, nella sua versione Moonship, cioè capace di allunare, potrà trasportare sulla Luna fino a cento tonnellate di carico. Detto altrimenti, sono due veicoli di categorie diverse: Apollo è un’utilitaria, Starship un tir con rimorchio.
Vi si aggiunga il fatto che, da quanto si è dedotto dalla conferenza stampa, anche la privata Axiom Space, che deve progettare e testare le nuove tute spaziali pressurizzate (quindi per le attività extraveicolari, in grado di supportare gli astronauti in condizioni di vuoto), non sarebbe stata in grado di consegnarle entro la scadenza prevista. Significa che almeno Artemis 3 sarebbe comunque slittata, anche senza il rinvio della missione precedente.
Mai tentato prima
A margine di quanto raccontato fino a qui, non andrebbero dimenticate la necessità di spedire materiale e rifornimenti prima di Artemis 3, da far trovare ai primi esploratori e l’intenzione di costruire una stazione spaziale, il Lunar Gateway, da assemblare in orbita lunare, anch’essa spostata al 2028 per il lancio del primo modulo. È l’elemento in cui si assomma buona parte del contributo europeo, canadese e giapponese all’avventura lunare, oltre al modulo di servizio della capsula Orion.
Anche la destinazione scelta influisce sui tempi del programma: si andrà al Polo sud, per cercare miniere di ghiaccio in ombra perenne in fondo ai crateri: tutt’altro che una passeggiata.
Comunicare e spostarsi, durante missioni che già all’inizio dureranno almeno una settimana, richiederà satelliti in orbita che facciano da ponte con la Terra.
Come detto da Nelson, sono tutte sfide mai tentate prima. Con l’aggravante che, dovesse andare storto qualcosa lassù, si rischierebbe di non fare ritorno sulla Terra. Mentre materiali e tecnologia hanno registrato progressi giganteschi in cinquant’anni, i rischi di un’avventura così lontano dal nostro Pianeta sono rimasti pressoché identici.
Un ritorno safe è un fatto che la Nasa e gli Stati Uniti non possono più esimersi dal garantire. Quando il primo statunitense volato nello spazio, Alan Shepard, si sistemò a bordo del razzo Redstone che lo avrebbe spedito oltre l’atmosfera, le probabilità che esplodesse al decollo erano del 57,5%. Quando l’Apollo 11 con a bordo Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins partì nel luglio del 1969, che i tre sarebbero sopravvissuti alla missione era previsto nel 50% dei casi. Per questo, ben prima che decollassero, William Safire, ghost writer presidenziale, scrisse per Richard Nixon il discorso da pronunciare alla Nazione in caso di “Moon Disaster”.
Oggi nessuno, umanamente e politicamente, vuole portare sulle spalle il peso di eroi caduti nell’audace impresa lunare, sessant’anni dopo il primo, storico, sbarco. Sarebbe una catastrofe e un’ignominia, rese ancor più insopportabili dai tanti ritardi accumulati e dalle scelte di sviluppo del programma, tutt’altro che esenti da critiche.
Avventura nuova, approccio vecchio
Erano in molti, quasi tutti, ad aspettarsi che per la Nasa tornare sulla Luna sarebbe stato un compito semplice, se non banale.
Per il programma Artemis è stato progettato e costruito lo Space Launch System (o Sls), un nuovo, potentissimo sistema di lancio i cui ritardi e i cui costi hanno infiammato polemiche feroci. Non sono pochi i critici che lo chiamano “the Senate Launch System”, per la scelta di averlo fatto costruire con un concept e una modalità ormai superate, per salvaguardare posti di lavoro, per riutilizzare elementi “avanzati” dello Space Shuttle.
L’equipaggio di Artemis 3 partirà in testa all’Sls accomodato sulla capsula Orion poi, con un rendez vous, due astronauti saliranno a bordo di Moonship e scenderanno sulla superficie. Una settimana dopo, l’equipaggio risalirà in orbita lunare e dentro all’Orion tornerà sulla Terra. Nelle missioni successive, dal 2028 in poi, la base orbitale sarà il Lunar Gateway, un porto al quale attraccare, trasbordare, dove effettuare e preparare esperimenti.
Tutto servirà per costruire le basi del primo avamposto umano sulla superficie di un altro mondo. E, presto o tardi, una colonia.
Basterebbe questo per considerare Apollo e Artemis due gemelli (profondamente) diversi: tra loro c’è la stessa differenza che distingue un viaggio di piacere all’estero dal costruirci una casa.