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Uno sguardo allo spazio degli Emirati Arabi Uniti

DI EMILIO COZZI

In principio, per onore acquisito dal primato storico, furono i cosmonauti, i pellegrini spaziali dell’Unione sovietica. A stretto giro seguirono gli astronauti, come vennero battezzati già mentre li si cercava, nel 1959, gli americani che si sarebbero avventurati oltre l’atmosfera (e poi anche gli europei). Oggi è ormai celebre anche il nome degli avventurieri spaziali cinesi: i taikonauti. Dei vymanauti sarà il caso di parlare dal prossimo gennaio, quando l’India ha promesso di portarli per la prima volta nello spazio a bordo della capsula Gaganyaan, fresca di un test di successo.
Più urgente imparare un altro nome spaziale: najmonauta, da najm (نجم), che in arabo significa “stella”.

Va dai neologismi offerti dalla storia dell’esplorazione spaziale, negli anni recenti è impossibile ignorare l’emergere dell’intraprendenza spaziale dalla penisola araba. In particolare quella degli Emirati Arabi Uniti capaci, in poco tempo e con uno sforzo olimpico, di arrivare più lontano, più in alto e con più rapidità di tutti gli altri.

Il Paese che, fra il 13 e il 17 novembre prossimi, si appresta a ospitare il prestigioso Dubai Airshow, fino al 2014 non aveva un’agenzia spaziale. Da allora, ha inviato oltre il cielo due uomini: il primo, Hazza Ali Mansouri, nel 2019 è rimasto una settimana sulla Stazione spaziale internazionale. Il secondo, Sultan Al Neyadi, è rientrato a inizio settembre dalla prima permanenza di lunga durata di un arabo (sei mesi, grazie all’accordo tra il Mohammed Bin Rashid Space Center e la compagnia privata americana Axiom) sull’avamposto orbitante, dopo aver condotto anche la prima storica attività extraveicolare per un najmonauta.

Hanno bruciato le tappe gli Emirati Arabi Uniti, con una determinazione e un dispiego di risorse che dice molto delle ambizioni extra-atmosferiche della federazione. Sono arrivati attorno a Marte e ora, dopo il tentativo, fallito, di sbarcare sulla Luna a bordo della missione giapponese iSpace, puntano agli asteroidi. Come molti altri, immaginano anche una colonia sul Pianeta rosso. Ma sono gli unici, Elon Musk escluso, a dichiarare ufficialmente una data verosimile per una spedizione: 2117. Nel frattempo mirano a costruire un ecosistema nazionale di space economy in grado di incubare aziende locali e ospitarne dall’estero. Con un fondo sovrano che ha iniziato a fare scouting.

Sulle spalle dei giganti
Il primo satellite emiratino ha raggiunto la sua orbita operativa nel 2009. Dubaisat-1 è stato costruito in Korea, dove gli ingegneri di Dubai sono andati come apprendisti. Nove anni dopo è decollato il KhalifaSat, apparato per l’osservazione della Terra interamente Made in Uae. Nel luglio del 2020, in testa al lanciatore giapponese H-IIA, è invece partita la sonda in occidente ribattezzata “Hope” (Al-amal, speranza), che sette mesi dopo è entrata in orbita attorno a Marte per studiarne l’atmosfera. Hope ha preso forma nei laboratori dell’Università del Colorado, negli Stati Uniti, dove gli arabi hanno lavorato gomito a gomito con chi, in ambito marziano, è il primo della classe. A Hope si devono, oltre alle analisi della composizione dell’atmosfera marziana, alcune sorprendenti immagini della luna più piccola del Pianeta rosso, Deimos, ripresa da appena un centinaio di chilometri.

Costata 200 milioni di dollari, Hope è la prima missione interplanetaria di uno Stato arabo. È programmato la seconda decolli nel 2028 e con una destinazione più remota: Ema, da Emirates Mission to the Asteroid Belt, sarà infatti protagonista di un “grand tour” di alcuni dei corpi celesti che orbitano nella fascia principale di asteroidi, tra Marte e Giove. Con un finale degno di cotanto viaggio: il rilascio di un lander sulla superficie di Justitia, un asteroide dalle caratteristiche peculiari che fanno sospettare provenga dal Sistema solare esterno. Anche in questo caso, gli Emirati Arabi Uniti sono forti di una collaborazione internazionale: il Laboratory for Atmospheric and Space Physics dell’Università del Colorado, Boulder (Usa), sarà di nuovo il partner principale, l’Asi, cioè Agenzia spaziale italiana, fornirà uno degli spettrometri ad immagine.

A differenza di Hope, questa volta oltre il 50% degli investimenti dell’Agenzia dovrà retribuire il lavoro di aziende private con sede nel Paese. Da qui è partito anche lo scouting per incubare nuove realtà, di cui accrescere la solidità e la credibilità internazionale (è significativo siano state diffuse, urbi et orbi, presentazioni tradotte in diverse lingue, italiano compreso). Non è un caso l’evento tenutosi a giugno deputato a promuovere l’inventiva degli emiratini e degli stranieri intenzionati a collaborare ai progetti spaziali della federazione sia stato chiamato Space Means Business. L’obbiettivo, esplicito, è che gli Emirati diventino un polo attrattivo per chiunque, nel mondo, abbia mire e progetti extra-atmosferici.

Lo spazio significa affari
Nel luglio del 2022, il governo ha inaugurato un fondo sovrano di 820 milioni di dollari. Il primo investimento sarà per una costellazione satellitare, Sirb (stormo), con radar ad apertura sintetica per l’osservazione della Terra. Ma l’obiettivo, dichiarato, è proprio “incoraggiare attivamente la collaborazione tra imprese internazionali e locali”. Un traguardo che i primi successi suggeriscono raggiungibile senza eccessive attese.

Beninteso, gli Emirati sono un piccolo attore rispetto ai colossi dello spazio: con nove milioni di abitanti, hanno un Pil cinque volte inferiore a quello italiano. Eppure, consapevoli dei ritorni sugli investimenti in ambito spaziale – con moltiplicatori che vanno da tre a dieci per ogni euro investito – gli Uae dedicano attenzione e centralità crescenti al settore. Un elemento non trascurabile anche in ottica politica internazionale, visto il peso della federazione e la strategicità dei suoi giacimenti petroliferi. Dalla cui dipendenza, a un tempo, il Paese tenta di affrancarsi. È anche nell’ambito di questo progressivo cambio di paradigma che lo spazio per gli Emirati rappresenta una delle opportunità più proficue da cogliere, catalizzatore, com’è, di innovazione tecnico-scientifica ed economie crescenti (dirette e indirette), prestigio politico e capacità diplomatica.

Proprio nell’ambito della space diplomacy andrebbe aggiunta un’ultima considerazione, relativa alla Luna: gli Emirati hanno sottoscritto sia il programma cinese (in collaborazione con la Russia) per la realizzazione di una base al Polo sud selenico, sia gli Artemis Accords americani. Lungi dal tenere il piede in due scarpe, è la volontà di non farsi imbrigliare in una competizione che rischia di riprodurre, se non di acuire, la contrapposizione di due blocchi, occidentale e orientale. Come fa notare l’esperto di geopolitica spaziale Marcello Spagnulo, “la loro equidistanza – che abbiano fatto condotto esperimenti nella stazione spaziale cinese, per esempio – mostra come vedano la propria partecipazione a queste operazioni in modo diverso da noi europei. Per noi significa schierarsi, per loro operare per acquisire conoscenze e non è detto che, se cooperano con l’Occidente, escludano dal farlo con altri. Non si sentono vincolati”.
In effetti, limitarsi a considerare un blocco democratico occidentale (Stati Uniti, Canada, Europa, Australia, Giappone ecc.) e un blocco sino-russo ignorerebbe o sottostimerebbe quanto anche i mercati indopacifici, sudamericani e africani siano in gioco e desiderosi di trovare le loro alleanze.
Esattamente come l’Arabia Saudita, il Sudafrica, l’Egitto, il Kenya e l’India (che in attesa partano i vymanauti, lo scorso 23 agosto ha fatto atterrare la sua sonda Chandrayaan-3 sulla Luna, diventando così la quarta nazione al mondo con una presenza fisica sul nostro satellite naturale), gli Emirati Arabi Uniti non fanno che ribadire il proprio interesse a far parte dell’ecosistema occidentale e di quello cinese. Anche perché, qualora le tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Cina dovessero aumentare, non è escluso si potrà assistere alla formazione di un terzo polo, oppure al modello di collaborazione con entrambe le parti di cui gli Emirati costituiscono de facto un pioniere.

Il programma di volo umano emiratino è nato nel 2017. In sei anni, gli Uae hanno dimostrato di sapere “salire sulle spalle dei giganti” e fatto intravedere visioni strategiche di lunga durata. Si sono dati 100 anni per arrivare a stabilire un insediamento su Marte. È l’unico programma spaziale secolare. Non ci sono stati, almeno per ora, annunci roboanti, né speranze ridimensionate dalla realtà. Sul sito del Centro spaziale Mohamed Bin Rashid (l’ente spaziale di Dubai, uno dei sette emirati, responsabile, tra l’altro, della missione Hope) l’orizzonte è delineato: quello di una colonia sul Pianeta rosso, partendo, già ora, dal recruiting di startup tecnologiche. C’è un form da compilare per inviare proposte di collaborazione. Che possono essere anche semplici idee, con maturità bassissima, semi da far germogliare. Sarebbe il caso di osservarne la raccolta: come sanno bene gli amanti della (fanta)scienza, ma anche gli ingegneri spaziali, il 2117 non è poi così lontano.



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