La politica spaziale della Cina: (non più così) lenta; e inesorabile.
- February 14, 2025
- Posted by: admin
- Category: Emilio Cozzi
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Il Dragone insegue gli Stati Uniti, ma la distanza sembra accorciarsi: pochi errori, incremento dell’iniziativa privata e sforzi crescenti per competere con SpaceX. O vincere la competizione lunare.
DI EMILIO COZZI
Nel 2024, la Cina è stata il secondo Paese per numero di lanci spaziali. Dietro, ça va sans dire, agli Stati Uniti. Un risultato, doveroso precisarlo, raggiunto senza la potenza di fuoco di SpaceX, che per la sola costellazione Starlink ha totalizzato 89 liftoff, 21 in più di Pechino, fermatasi a 68.
C’è tuttavia un dato che va scovato nelle statistiche: Galactic Energy ha messo a segno cinque lanci, quattro quelli di Cas Space (finanziata dallo Stato, ma per iniziative commerciali) e uno per Landspace, lo stesso per i-Space e Orienspace.
Sono, queste, realtà che hanno almeno una cosa in comune: sono tutte private o, comunque, con scopo commerciale. E rappresentano più di un sesto delle attività in rampa di lancio. Il resto è costituito dai lanci messi a segno da Casc, la principale azienda statale, quella, per intenderci, che sviluppa e costruisce la famiglia dei Lunga Marcia, e da China Rocket, anch’essa statale.
L’orbita, territorio strategico
La freddezza dei numeri non è comunque sufficiente per dar conto delle ambizioni cinesi oltre l’atmosfera. Un po’ come la sorveglianza su bracci di mare, gole e stretti, anche l’orbita è diventata un ambito di posizionamento strategico. Per un motivo semplice: sebbene ampio, lo spazio – almeno, la sua porzione più ambita – non è infinito.
Una volta lanciato, qualsiasi satellite diventa difficile o impossibile da rimuovere, se non ricorrendo a soluzioni drastiche come la sua distruzione (che crea una pericolosa nuvola di detriti) o il suo spostamento attraverso missioni molto costose. Peraltro, qualora i satelliti appartenessero a un concorrente, a un avversario o a un potenziale nemico, concretizzare una minaccia corrisponderebbe a un atto di guerra.
I satelliti di SpaceX sono già migliaia e, tra pochi anni, decine di migliaia. Essere competitivi impone quale unica soluzione il muoversi in fretta. Cosa che Pechino ha capito da tempo.
Non è un caso che la Cina stia costruendo addirittura tre costellazioni per la connettività satellitare, per un totale di oltre 30mila fra satelliti G60, Guowang e Honghu-3. Quest’ultima sarà messa in orbita proprio da Landspace. Come si è già scritto su queste pagine, l’approccio cinese è quello di non lasciare agli Stati Uniti il monopolio dell’orbita bassa, che rischia di essere presto satura (il novero dei concorrenti dovrebbe comprendere anche Kuiper di Amazon e le costellazioni in fase progettuale di India, Russia ed Europa).
Spionaggio e sorveglianza, l’ascesa cinese preoccupa gli Usa
Nonostante la sovraesposizione nella cronaca recente, a essere rilevante non è solo la risposta a Starlink; con la maggiore capacità di accesso all’orbita, il tema si allarga a tutte le applicazioni, in particolare militari.
Tempo fa, il generale Stephen Whiting, a capo dello Us Space Command, ha dichiarato ai giornalisti che, in soli sei anni, Pechino ha “triplicato il numero di satelliti di sorveglianza e ricognizione in orbita” con ripercussioni in tutti i settori militari. “Francamente, la Repubblica Popolare Cinese si sta muovendo a velocità mozzafiato nello spazio e sta rapidamente sviluppando una serie di sistemi d’arma capace di mettere a rischio le nostre capacità spaziali“.
A quasi 70 anni, e con le dovute differenze, sembra di risentire nelle parole di Whiting e nell’apprensione americana la preoccupazione che animò gli Stati Uniti nel 1957, quando lo Sputnik solcò, per primo, le vie orbitali. La costante è che, “dall’altra parte”, c’è ancora una potenza dalle capacità enormi e la cui scarsa trasparenza impedisce di monitorare il reale impegno economico. Le novità sono che la Cina ha una popolazione quattro volte più numerosa e un prodotto interno lordo secondo solo a quello di Washington.
La corsa alla Luna
Non è chiaro quali siano i reali obiettivi e le tecnologie che Pechino impiegherà per la nuova “corsa alla Luna”. Si sa solo che è determinata a portarci un equipaggio umano entro l’inizio del prossimo decennio, traguardo molto simile a quello della Nasa, considerati i continui ritardi e rinvii del programma Artemis.
La nuova avventura selenica potrebbe peraltro concretizzare l’ennesimo testa a testa per accaparrarsi territori nella stessa regione lunare, il Polo sud. Il buonsenso suggerirebbe ci si accordasse per una attività di esplorazione pacifica, basata sulla mutua assistenza e sulla condivisione delle scoperte scientifiche. Gli Accordi Artemis, in questo, potrebbero essere un buon punto di partenza: sono stati sottoscritti da più di 50 Paesi, per lo più occidentali o sotto l’ombrello di Washington. Un’iniziativa cui l’impresa lunare cinese, tradotta in una serie di memorandum per la realizzazione di una base scientifica sulla superficie selenica, ha risposto raccogliendo l’adesione di Russia, Arabia Saudita, Senegal, Serbia, Svizzera, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Pakistan, Panama e Sudafrica.
L’impressione, come nel 1957, è che chi prima arrivasse potrebbe vantare, occupare, disporre come preferisce di una risorsa che, nell’Outer space treaty dell’Onu siglato nel 1967, è sancito essere “bene comune globale”. Definizione che proprio il presidente rieletto, Donald Trump, si è preso la briga di sconfessare nel 2017 per stimolare il coinvolgimento di aziende private nella conquista delle ricchezze nello spazio extra atmosferico.
Nei fatti, però, è la Cina l’ultima potenza ad aver morbidamente calcato il suolo lunare con le missioni più ambiziose, dando prova di possedere tecnologia e know-how per sbarcare sul lato nascosto e portarne a terra alcuni campioni. Pechino, sulla Luna, non ha mai sbagliato un colpo; difficile stabilire quale tipo di presagio sia, questo, per gli Stati Uniti.
Potenza e mercato
In fondo, sono ancora i numeri a tornare rivelanti; dei satelliti, certo, ma anche quelli relativi alla potenza dei mezzi.
La Cina, come già fatto notare in un altro articolo, sta lavorando a una versione “super” del Lunga Marcia, il 9. Non è chiaro quanto sarà potente; è probabile come la Starship. Più in generale, Pechino sta progettando diverse famiglie di razzi per avere a disposizione rapide capacità di lancio. Con vettori statali, commerciali o totalmente privati. Cosa che riporta al punto di partenza di questo scritto.
Il Paese del Dragone sta accelerando in un processo oggi considerato imprescindibile: aumentare l’iniziativa privata nel settore spaziale. Certo, con i pur numerosi distinguo che si possono fare circa l’ecosistema economico di un governo fortemente accentratore e non esattamente democratico.
Nel 2024, tra i nuovi lanciatori, si è assistito al debutto di due vettori commerciali: Gravity-1 di Orienspace e Zhuque-2E di Landspace. Nel 2025 saranno sette i vettori commerciali cinesi pronti a lasciare la rampa per la prima volta: quelli di Space Pioneer, Galactic Energy (2), Landspace, i-Space, Deep Blue Aerospace e Space Epoch. Per molte di queste società, il focus è la riutilizzabilità del primo stadio. È vero, rispetto ai traguardi già raggiunti da SpaceX, rimane una ricorsa, ma l’ecosistema di aziende private e startup del Dragone si sta rafforzando. In termini di popolazione, e insieme con l’India, la Cina rappresenta la realtà con il potenziale di crescita più importante in questo settore.
Se pensiamo che Deep Blue Aerospace ha venduto i primi due biglietti per i posti su un razzo che porterà passeggeri nello spazio nel 2027 – l’esperienza, pochi minuti in microgravità, simile a quella offerta da Blue Origin, costa 211mila dollari – e anche che Cas Space ha in programma l’inizio delle missioni di space tourism tra un paio d’anni, il cerchio in qualche modo si chiude.
Perché le intenzioni commerciali e le ambizioni della Cina non potranno essere circoscritte al suo mercato interno. Per definizione, sono rivolte a chi abbia la necessità di lanciare e i soldi per farlo. Presto sarà chiaro se il gigante asiatico aggredirà il mercato come ha fatto negli altri settori economici, e con quali clienti.
L’instabilità dello scenario politico globale non garantisce più che l’Occidente, in primis l’Europa, resti accodato alle scelte e alle politiche di Donald Trump e di Elon Musk.