Le ambizioni dell’Italia spaziale, nate 60 anni fa con san Marco
- December 19, 2024
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- Category: Emilio Cozzi
Il nostro Paese vanta una longevità rara nel settore, una storia di successi e un presente ambizioso, sebbene in una Europa al traino degli Stati Uniti. La direzione punta agli interessi nazionali, sia con gli investimenti record del Pnrr, che nel contesto geopolitico.
DI EMILIO COZZI
L’Italia spaziale compie sessant’anni, una bella cifra.
È fra i pochi Paesi a vantare cotanta longevità, dopo Russia e Stati Uniti.
A Roma erano le 21 e 24 del 15 dicembre 1964 quando un razzo Scout X-4 statunitense decollò dalla base di Wallops, in Virginia, per portare in orbita il primo satellite italiano, il San Marco 1. Base e vettore erano americani, ma il team di controllo, anche del lancio, era italiano. Il debutto posizionò il nostro Paese sul podio degli Stati capaci di raggiungere lo spazio con un oggetto costruito e operato in autonomia; Canada e Regno Unito ci erano già arrivati con un satellite proprio, ma affidandolo agli americani.
Dal 2021, il 16 dicembre è la Giornata nazionale dello spazio. Per questo, lunedì scorso, è stato il momento di celebrarne la ricorrenza tonda.
La storia, però, non si cura di primati e monumenti; le ambizioni extra atmosferiche non sono più cosa da pionieri, come nell’ormai lontano ‘64.
Ai tempi, il debutto italiano fu seguito da altri quattro lanci effettuati dal primo, e finora unico, spazioporto tricolore. Costruito a Malindi, al largo delle coste del Kenya, era il poligono San Marco, poi battezzato Luigi Broglio, generale ispettore del corpo del genio dell’Aeronautica, autorità dell’aerospazio di levatura globale, nonché ideatore del progetto e della “bilancia di Broglio”, portata dalle sonde per indagare densità e composizione degli strati alti dell’atmosfera.
Da allora l’Italia non ha mai smesso di proiettare le proprie ambizioni oltre il cielo. Sia da sola, che di concerto con i partner nell’ambito dell’Agenzia spaziale europea.
Quando si staccò dalla piattaforma nell’Oceano indiano il San Marco 5, nel 1988, l’Esa era già nata e il programma Space Shuttle in pieno svolgimento; il primo astronauta italiano, Franco Malerba, era stato selezionato dall’Agenzia spaziale italiana e avrebbe presto volato sullo shuttle Atlantis; Stati Uniti, Europa, Giappone e Russia progettavano la Stazione spaziale internazionale. E l’Italia c’era, da protagonista: metà del volume pressurizzato del laboratorio orbitante, compresa la spettacolare Cupola, è frutto dell’ingegneria e degli stabilimenti industriali del nostro Paese, così come le capsule cargo che hanno rifornito, e in parte ancora riforniscono, la Iss.
Il rapporto bilaterale con la Nasa ha consentito al nostro Paese di sfruttare opportunità di lancio aggiuntive per gli astronauti italiani; e una delle missioni interplanetarie più longeve, gloriose e belle (nel senso più puro), Cassini, rimasta per due decenni in orbita attorno a Saturno, era targata Nasa, Esa e Asi.
L’Italia era anche a bordo di Rosetta, avventura europea (e prima mondiale) in orbita attorno a una cometa, addirittura capace di atterrarci sopra.
In quasi tutte le missioni Esa più importanti c’è il contributo della nostra scienza e della nostra tecnologia. Siamo tra i leader nella costruzione dei satelliti, dei pannelli solari, dell’ingegneria meccanica e radio. In orbita, il Made in Italy si distingue nei sistemi e sottosistemi di satelliti per l’osservazione della Terra, europei ma anche Italiani – con pochi rivali per quanto concerne la tecnologia dei radar ad apertura sintetica, i Sar.
Cosmo-SkyMed è una costellazione duale, cioè per uso civile e militare, di satelliti radar che, insieme con le Sentinelle di Copernicus, scandaglia la superficie terrestre e fornisce mappe preziose nella gestione delle emergenze in caso di disastri naturali. La filiera di piccole e medie imprese di grande affidabilità e crescente rilievo internazionale va per di più arricchendosi anno dopo anno.
Tutto bene, dunque? Non proprio.
L’Italia in Europa
Nel futuro c’è ancora tanta ambizione. Sarà vitale per rimanere nello spazio che conta, anche, se non soprattutto, in uno scenario geopolitico dagli equilibri precari, un’incertezza determinata dalla crisi che va destabilizzando, fra gli altri, Germania e Francia.
L’Italia va inserita in un contesto europeo non esente da critiche. Riguardano le aspirazioni di un Continente che dispone di un’eccezionale know-how e ha compiuto grandi imprese, ma senza una guida e un governo che possano definirsi tali, quindi capaci di spingere un settore e le sue avanguardie.
L’Europa non ha un sistema proprio per il trasporto degli astronauti; il loro lancio è questione oggi affidata agli Stati Uniti e, in passato, alla Russia.
Quello europeo è per di più un contesto economico in un cui ogni Paese prende decisioni autonome e, a un tempo, collabora in ambito Esa. Senza un vertice come quello statunitense, cinese o russo, è decisamente più complesso “mettere a terra” investimenti con efficienza e rapidità. Basti un dato: si stima che l’Europa intera spenda come la Cina nei programmi spaziali, ma la stagnazione prevista per l’Unione corrisponde al supporto crescente che Pechino riserverà al settore negli anni a venire. Entro il 2030, il distacco potrebbe già essere rilevante.
Non andrebbe sottovalutata nemmeno la scarsa domanda da parte della Difesa e delle istituzioni, il vero volano che ha permesso lo sviluppo di realtà come SpaceX. Certo, l’Europa non è l’America ed è improbabile nascerà un’azienda come quella di Elon Musk dentro i confini del Vecchio continente, proprio perché il monopolio è contrastato con qualsiasi mezzo. È anche uno dei motivi per cui si cerca il servizio di SpaceX quando le cose, da noi, non vanno come si spera. È successo durante la “crisi dei lanciatori”, e accade proprio in Italia, dove per portare la banda larga nelle zone meno servite, il governo Meloni sta orientandosi verso l’utilizzo di Starlink.
Il meccanismo del “georitorno”, l’affidamento obbligatorio di commesse alle industrie dei Paesi membri dell’Esa in ragione del loro investimento nei programmi spaziali europei, è nel mirino da anni. Ultimo solo in ordine cronologico, il rapporto di Mario Draghi sulla competitività ha criticato il sistema, imputandolo di limitare lo sviluppo e l’innovazione. Significativa la difesa, non solo per doveri d’ufficio, del direttore generale dell’Esa: “Ha creato competenze in Paesi che in precedenza non avevano un’industria spaziale competitiva – è stata la replica di Josef Aschbacher – ha aumentato la resilienza europea, ha prevenuto l’emergere di un monopolio e ha attratto ingenti finanziamenti pubblici per importanti programmi spaziali”. Questo per ricordare che siamo pur sempre un “piccolo Paese” in una “piccola” Europa dello spazio, divisi e senza la massa critica per competere con i giganti.
Lo spazio Made in Italy
Eppure, si scriveva, l’Italia c’è; ora con un approccio a tratti più orientato al proiettarsi come nazione, ma con la necessità, insieme, di lavorare in cooperazione per i grandi progetti oltre l’orbita terrestre.
Ciò che il mondo spaziale riconosce al nostro Paese sono il know how e l’industria di eccellenza. Così si spiegano, per esempio, i successi di colossi come Thales Alenia Space e Telespazio, o l’ampio margine di crescita promesso dalla controllata e-Geos (sodalizio di Telespazio e Agenzia spaziale italiana), titolari di commesse importanti nella gestione delle missioni e nell’elaborazione dei dati. Si potrebbero fare fulgidi esempi di Pmi, capaci di farsi valere anche oltreoceano, dove la concorrenza abbonda. Quattro su tutte: D-Orbit con i suoi satellite carrier, taxi spaziali per consegnare in orbita satelliti di piccole dimensioni, peraltro pronta – si mormora – al debutto in Borsa; Argotec, che con Liciacube è volata attorno a un asteroide; Officina Stellare, quotata con successo da anni e sempre pronta a estendere ovunque la sua attività; o Novaeka, fra le stelle emergenti nella produzione dei banchi di prova per lanciatori. Sono quattro nomi che rappresentano solo la punta di un iceberg composto da realtà capaci di trarre vantaggio da una rivoluzione, quella della miniaturizzazione delle tecnologie, della digitalizzazione dei processi produttivi, dell’aumento dei ritmi di lancio.
A proposito di questi ultimi, il contesto internazionale sembra accordare una grande fiducia ad Avio, di recente tornata a competere sul mercato con il razzo medio-leggero Vega C, che ha ripreso servizio dopo il passo falso del dicembre 2022. Il backlog dell’azienda riporta una dozzina di ordini in portafoglio e la garanzia, per l’Italia e per l’Europa (insieme con la new entry, Ariane 6) dell’accesso indipendente all’orbita. Non che lo scenario sia privo di punti deboli, a partire dalla competitività ancora tutta da dimostrare, in particolare nei confronti di competitor statunitensi, fra cui SpaceX è solo il nome più noto.
Per guardare al futuro, si parta quindi dalla scelta, arrivata con l’attuale governo, di strappare ad Arianespace (ergo ai francesi), il controllo sulla commercializzazione dei voli di Avio. D’ora in avanti, sarà la stessa compagnia di Colleferro a vendere i propri servizi di trasporto nello spazio a istituzioni e privati. Una mossa coerente con il progetto di creare un ecosistema spaziale italiano, non slegato ma autonomo rispetto, per esempio, all’Europa.
Sembra andare in questa direzione anche un altro step, non banale: l’addestramento e il lancio di un astronauta di uno Stato aderente all’Esa volato in orbita senza le insegne dell’Agenzia spaziale continentale: Walter Villadei. È molto probabile che il colonello dell’Aeronautica militare sia stato solo il primo: l’Italia e altri Stati, Usa e Francia compresi, hanno creato Comandi delle operazioni spaziali o forze spaziali. Anche questo è un cambio di passo significativo (e tutt’altro che inatteso, visto che l’addestramento di Villadei è iniziato ben dieci anni fa in Russia, come cosmonauta).
La svolta del Pnrr e l’Africa
Parlare di spazio in Italia, oggi, significa parlare di Pnrr ma non solo. Che sia il momento giusto per prendere l’abbrivio e proiettarsi oltre il cielo sta diventando via via evidente. I fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza si sommano a quelli investiti in Esa e ai fondi nazionali per un totale, record, di 7,2 miliardi di euro nel triennio 2024-2026. Sono le cifre citate dal ministro per le Imprese e il Made in Italy, Adolfo Urso. Dentro ci sono i quasi 900 milioni affidati all’Agenzia spaziale italiana per attuare i programmi spaziali e gli 1,3 miliardi all’Esa per il progetto cardine finanziato con il Pnrr: la costellazione Iride, micro satelliti di osservazione della Terra con strumenti diversi. Tutte commesse che tornano sul territorio a imprese italiane (come Thales Alenia Space, Ohb Italia e la stessa Argotec, solo per fare qualche esempio).
Sarà anche l’occasione per dare una spinta alle nuove tecnologie dei lanciatori, con lo sviluppo, in Avio, di propulsori a combustibile liquido, primo passo verso uno stadio riutilizzabile di nuova generazione. Data l’iniezione senza precedenti di capitali nell’economia di questo settore, il dubbio è se non si stia gonfiando una bolla. Le imprese sapranno correre con le proprie gambe, dopo?
Non è tutto qua: il Piano Mattei per l’Africa, per esempio, su un territorio ancora poco attrezzato in quanto a tecnologie orbitali, mira a stanziare risorse per contribuire allo sviluppo del continente. Lo farà tramite accordi con le neonate agenzie spaziali (tra cui quella Africana, con sede al Cairo) e con i singoli Paesi. Va da sé che i rapporti bilaterali faciliteranno l’inserimento di tecnologie e servizi in un mercato ancora poco esplorato. Con il rischio, da evitare, di neo colonialismo spaziale.
E iniziando proprio dal Kenya, con la valorizzazione della base Luigi Broglio quale fulcro delle attività orbitali italiane. Lì, nel Corno d’Africa, dove tutto è iniziato sessant’anni fa.