Museo Luna: la nostra storia scritta su un suolo extraterrestre
- February 4, 2025
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- Category: Emilio Cozzi
La decisione del World Monuments Fund di inserire i manufatti lunari tra i monumenti da proteggere invita a una riflessione… terrestre.
DI EMILIO COZZI E MATTEO MARINI
Quella dei siti storici sulla Luna inseriti nella lista dei patrimoni dell’Umanità da proteggere è stata notizia molto battuta.
Per la suggestione del tema, certo; nondimeno, perché mette insieme un allarme e una prospettiva entrambi capaci di far sognare: una frequentazione assidua delle lande seleniche e la possibilità di trascorrerci addirittura una vacanza.
Non si può dire che al World Monuments Fund si siano mossi in ritardo. Quando ancora il cosiddetto turismo spaziale è affare per una elite di miliardari, o di fortunati possessori del biglietto vincente della lotteria giusta (come accaduto per la missione Inspiration 4), e le missioni sono ancora sporadiche, l’organizzazione no-profit con sede nel Rockfeller Center di New York si preoccupa del patrimonio storico messo a rischio da missioni pubbliche e private, destinate non solo a esplorare il suolo lunare, ma anche a indagare le possibilità di sopravvivenza e business.
Le prime orme
L’organizzazione ha contato più di 90 siti “di allunaggio o da impatto” che testimoniano attività umane. Ci sono, ovvio, i luoghi dove sono sbarcati, hanno camminato e anche guidato gli astronauti delle sei spedizioni Apollo scese sul suolo.
“Tranquillity base here, the Eagle has landed”: la voce che surfava sulle frequenze gracchianti del collegamento radio con il centro di controllo Nasa era quella di Neil Armstrong, e battezzava per la prima volta un nuovo presidio del genere umano. Lì rimangono il modulo di allunaggio, la bandiera a stelle e strisce (che dopo più di mezzo secolo dovrebbe essere diventata bianca, ‘candeggiata’ dalle radiazioni solari) e tutto ciò che gli astronauti si sono lasciati dietro, compresi i rifiuti.
Insieme con il primo, altri scenari raccolgono le originali vestigia dell’uomo – e sì, maschio per ora – su un altro mondo: le tre Moon buggy, cioè i rover con cui i primi pellegrini hanno scorrazzato in certi casi per decine di chilometri, gli attrezzi; ci sono la piuma e il martello usati da David Scott, dell’Apollo 15, per dimostrare ciò che postulò Galileo, cioè che, in assenza di atmosfera, due oggetti di massa diversa cadano con la medesima accelerazione e velocità.
Ci sono le impronte, nel tempo assurte a icona pop, a simbolo. E che andrebbero conservate come, sulla Terra, preserviamo quelle dei primi ominidi cementate nei millenni. Sono sempre primi passi su un mondo tutto da esplorare, tanto 150mila anni fa quanto nel 1969.
Ci sono le targhe, quella imbullonata alla zampa del Lem dell’Apollo 11, che racconta all’eternità come si sia arrivati, per la prima volta, fino al Mare Tranquillitatis, “in pace per tutta l’Umanità”; c’è quella che ricorda gli astronauti e i cosmonauti caduti, a cominciare dai tre dell’Apollo 1, arsi vivi durante un test a causa di una scintilla in grado di trasformare la capsula satura di ossigeno in una trappola infernale. C’è una foto di famiglia dell’astronauta Charles Duke (Apollo 16) e ci sono le palline da golf colpite da Alan Shepard in quello che sarà sempre ricordato come il primo sport extraterrestre. Il Moon museum è una placca di materiale semiconduttore per elettronica, poco più grande della sim di uno smartphone, sulla quale alcuni artisti vergarono una propria “opera d’arte” (Andy Warhol ci disegnò un pene). Fu portata sulla Luna, pare, con l’Apollo 12.
Proiettili e relitti
Ci sono le sonde e i rover, che da quasi 60 anni puntellano la superficie, o gli oggetti che hanno impattato, scesi come proiettili intenzionali oppure no. C’è, per esempio, Baresheet, che doveva segnare il primo storico sbarco di Israele su un altro mondo e che, con buona probabilità, ha invece inciso con un nuovo cratere la topografia lunare. A bordo portava anche una piccola ciurma di tardigradi, forse i primi veri “coloni” terrestri sulla Luna (se qualcuno è sopravvissuto, magari un giorno, sarà risvegliato).
Dallo storico impatto di Luna 2, prima sonda a colpire un suolo non terrestre, sono decine i veicoli spaziali sparati (letteralmente), discesi, precipitati. Anche sul lato nascosto, per quanto pochi, ci sono alcuni relitti americani, così come i lander e i rover delle uniche due missioni a planare ed esplorare il suolo di quell’emisfero, le Chang’e cinesi.
Sono tutti pezzi della nostra civiltà, occidentale e orientale (manca il sud del mondo), pronti a testimoniare l’umana tensione esplorativa, il desiderio di imparare, di conoscere. Lì dove abbiamo lasciato le prime tracce, conviene conservare la memoria, che è sempre monito ma anche consapevolezza. Di un’evoluzione, per misurarci con quello che eravamo; di un orgoglio, per i nuovi traguardi da raggiungere; e di errori da non ripetere.
Un laboratorio di pace
Tempo fa si credeva che lo spazio extra atmosferico fosse infinito, e che il mare avrebbe raccolto la nostra spazzatura senza che questo rappresentasse un problema. Eravamo convinti si sarebbe potuto lanciare qualsiasi satellite avremmo costruito, senza limiti, senza paura. E invece siamo malati di una sindrome, quella di Kessler, e troviamo microplastiche ovunque.
La superficie della Luna è di circa 38 milioni di chilometri quadrati; sembrano tanti, ma non lo sono.
“I firmatari intendono preservare il patrimonio spaziale esterno, che considerano comprensivo di siti di atterraggio umani o robotici, manufatti, veicoli spaziali e altre prove di attività sui corpi celesti, secondo standard sviluppati di comune accordo”, è un passo degli Artemis accords, il testo proposto dalla Nasa per regolare la futura esplorazione selenica. Un’esplorazione che dovrà essere economicamente ed ecologicamente sostenibile. Lo ricorda anche Simonetta Di Pippo in un suo libro dal titolo importante: Luna, laboratorio di pace.
Sarebbe bene iniziare da qui.