Una tuta spaziale al megastore

Decathlon e Spartan Space hanno presentato Eurosuit, che l’astronauta francese Sophie Adenot indosserà nella sua prossima missione bordo della Iss. Lo spazio è sempre più “pop”

DI EMILIO COZZI

Forse, un giorno, sarà possibile trovare una tuta spaziale sugli scaffali di uno dei principali megastore dedicati allo sport. 

Nel frattempo sarà più probabile rintracciare capi e completi derivati dalle innovazioni tecnologiche messe in campo per sviluppare Eurosuit, la tuta spaziale brandizzata Decathlon. La prima a indossarla sarà Sophie Adenot, l’astronauta francese che fra qualche mese partirà per la missione Epsilon dell’Agenzia spaziale europea (l’Esa) a bordo della Iss. 

Non si tratta dell’ingombrante scafandro entrato nell’immaginario comune, quello indossato dagli astronauti sulla Luna o durante le attività extraveicolari. Il prototipo di intra vehicular suit è comunque studiato per essere indossato in due fasi non meno delicate: il decollo e il ritorno sulla Terra.

Gli astronauti a bordo delle capsule Dragon di SpaceX ne indossano di simili; sebbene più “agili”, per agevolare i movimenti, possono comunque proteggere chi le indossi grazie al casco per respirare e alla capacità di pressurizzarsi, creando un cuscinetto d’aria attorno al corpo alla giusta pressione. Questo può salvare la vita dell’astronauta in caso di incidente e di improvvisa depressurizzazione dell’abitacolo.

Il Cnes, il Centro nazionale di studi spaziali francese, ha coordinato tutto il progetto; Spartan Space, azienda basata a Septèmes-les-Vallons e specializzata in ambienti abitabili pressurizzati per luoghi “estremi” come lo spazio, è il prime contractor, responsabile dell’architettura e del supporto vitale della tuta; l’Istituto francese per la medicina spaziale ha sviluppato il sistema di monitoraggio dei parametri vitali; Decathlon ha portato la propria esperienza nel campo dei tessuti tecnici e dell’ergonomia.

Non è la prima volta che un grande brand punta alle stelle. Altri esempi risalgono addirittura agli albori dell’esplorazione spaziale. Sulla Luna gli astronauti indossavano un Omega Speedmaster, il “Moonwatch”, e usavano camere Hasselblad, modificate per resistere all’ambiente estremo. Certo, non si trattava di oggetti specificamente progettati per lo spazio, semmai adattati allo scopo con poche modifiche. Celebre fu la “Cola war“, una corsa allo spazio contesa fra Pepsi e Coca Cola per addolcire le missioni degli astronauti a bordo dello Space Shuttle, ma soprattutto per poter sfoggiare il record del primo sorso di una soda in orbita.

Fino a non molti anni fa, erano soprattutto compagnie di settore (quello spaziale) a lavorare dietro le quinte di grandi programmi e missioni, sviluppando tecnologie all’avanguardia che poi, come spinoff, tornavano sulla Terra sottoforma di invenzioni capaci di  migliorare anche la vita di tutti i giorni. Gli esempi più citati riguardano il memory foam, sviluppato per le sedute degli astronauti e poi entrato nelle camere da letto di gran parte della popolazione. La miniaturizzazione dei chip e i sensori delle camere digitali sono un’altra eredità della ricerca spaziale che, oggi, tutti portiamo in tasca.

L’inverso, in particolare se in chiave popolare, è invece cosa più recente: nell’ambito dello “spacewear” è già accaduto con Prada, che firmerà la tuta Axiom per i prossimi esploratori lunari. 

Ora un’altra azienda “pop” vola in orbita grazie a un riconosciuto know-how terrestre. 

È una tendenza interpretabile come un “nuovo corso” della space economy, in cui colossi noti per prodotti di grande consumo lavorano in partnership con aziende specializzate: Lavazza collaborò con Argotec per l’Agenzia spaziale italiana. Insieme riuscirono a portare sulla Stazione spaziale internazionale la prima macchina per fare il caffè in orbita. E con un brand geniale: “Isspresso”.

Sempre la tuta Axiom monterà una visiera sviluppata da Oakley, grande firma nel campo degli occhiali da sole sportivi, con tecnologia anti polvere lunare e per schermare la luce del Sole. A qualcosa di simile ha lavorato Irid Technology, made in Italy, per il prototipo di tuta spaziale della pugliese Rea Space. Rimanendo in Italia, Barilla e Dallara sono “volate” a bordo della Iss con la missione del colonnello dell’Aeronautica militare Walter Villadei, nel 2024. 

Tutto in attesa di assaggiare nelle nostre case la pastasciutta spaziale, o di selezionare dagli scaffali qualcosa immaginato per essere una tuta da astronauta per il vostro prossimo viaggio sulle vette dell’Himalaya.

Cosa, quest’ultima, che a pensarci bene accade già da anni (materiali per tute spaziali sono ampiamente utilizzati nell’abbigliamento sportivo, e viceversa). 

Beninteso, non sono attività esclusivamente pubblicitarie; sono operazioni tecnologiche e commerciali insieme, frutto di ricerca e capaci di portare, come la storia dello spazio insegna, a grandi innovazioni. Testimoniano un cambio di paradigma che ha molto a che fare anche con una evoluzione culturale: lo spazio sembra (è) più vicino, in molti modi. Nella possibilità di accedervi (riservata ancora a milionari, ma progressivamente più inclusiva), e nell’opportunità di beneficiarne. 

Basterebbe tornare a Eurosuit: la si definisce “un’innovazione rivoluzionaria” per la possibilità di indossarla o rimuoverla in meno di due minuti e in modo completamente autonomo. E perché è comoda. 

Ecco, lo spazio diventa comodo. Anche questa è una rivoluzione culturale.



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