La Cina sposta “verso il rosso” il nuovo ordine spaziale

Con la “Nuova via della Seta” Pechino “colonizza mezzo mondo”: è l’analisi di un rapporto della Commercial Space Federation statunitense.

DI EMILIO COZZI

Da una parte c’è la preoccupazione che la Cina superi tutti e vinca la nuova “corsa alla Luna”. Il programma Chang’e, infatti, procede senza esitazioni, anche se le tecnologie per allunare un equipaggio di taikonauti devono ancora essere collaudate.
Dall’altra parte c’è uno scenario impossibile da ignorare, spaziale, sì, ma molto più ctonio, geopolitico.
È “il Dragone nella stanza”, per riutilizzare una definizione già nota su queste pagine. Allora ci si riferiva al contesto africano, ma la centralità del colosso orientale è ormai conclamata nella sua influenza globale, in particolare in Asia e Sudamerica.

La Cina va fornendo il principale impulso alla riconfigurazione del “nuovo ordine spaziale globale”, come lo definiscono in molti, compreso il più recente rapporto della Commercial Space Federation (supportato da BryceTech e Orbital Gateway Consulting); la più importante associazione statunitense di categoria ha addirittura intitolato il documento, Redshift.

Lo “spostamento verso il rosso”

Il termine – azzeccato – si usa in astronomia per descrivere l’effetto sulla luce di oggetti molto lontani. Secondo la legge di espansione dell’Universo formulata da Hubble e Lemaître, più una galassia è distante, più aumenta la velocità con cui si allontana da noi. Questo si traduce in uno “spostamento verso il rosso” – redshift appunto – delle righe del suo spettro elettromagnetico. E secondo la Commercial Space Federation quello cui stiamo assistendo in questo “nuovo ordine spaziale” è proprio uno “spostamento verso il rosso” sulla nuova Via della seta (la Belt and Road Initiative).

Per questa, come per altre operazioni di espansione cinese, si potrebbe azzardare un termine inquietante: colonialismo. Il rischio c’è, suggerisce il rapporto, dato che una delle mosse di Pechino consiste nella fornitura di investimenti e tecnologie che generano legami profondi, se non dipendenza.
Il documento della Csf mette insieme i pezzi di questa strategia.
La Nuova via della seta abbraccia ormai tutto il mondo: pressoché l’intera l’Africa e tutta l’Asia a eccezione dell’India, tutta l’Oceania meno l’Australia, il Sudamerica esclusi Brasile e Paraguay, parte del Centro America e quasi l’intera Europa orientale. Rimangono fuori l’Europa occidentale, escluso il Portogallo (l’Italia ne è uscita nel 2023).

La via della Seta spaziale

In questo quadro, c’è anche una “Via della seta spaziale”, con oltre 80 progetti internazionali nel campo della produzione di satelliti, delle stazioni di terra, dei servizi di lancio, della condivisione dei dati e dei centri di formazione. Si sta integrando attraverso aziende statali cinesi ed entità autorizzate (cioè privati) nell’infrastruttura spaziale e di comunicazione di decine di Paesi. Spesso, ed ecco la lunga leva di comando, con l’aggiunta di prestiti agevolati e contratti di manutenzione a lungo termine. “L’espansione dell’influenza di Pechino rischia di rendere i Paesi coinvolti in questi progetti vulnerabili alla diplomazia del debito, alla sorveglianza, alla censura delle informazioni e all’invasione operativa, come si è visto in alcuni casi in Sud America e Africa” è la riflessione.

La Cina ha pagato 6 degli 8 milioni di dollari necessari per costruire il primo satellite etiope, che è stato poi lanciato nel 2019, e Pechino ha anche costruito una struttura spaziale importante in Argentina. Il suo ruolo quale sostenitore chiave delle nazioni in via di sviluppo che cercano di accedere allo spazio è funzionale ai suoi interessi geopolitici, finanche a quelli “selenico-politici”, come si scriverà a breve.
Il guinzaglio di beni e servizi
Secondo uno studio sull’export spaziale cinese firmato da Nathaniel Rome della Georgetown University, dal 1990 al giugno 2023 Pechino ha lanciato 77 satelliti per clienti stranieri (un centinaio contando le collaborazioni) e ha esportato 17 satelliti propri. La tendenza ha registrato un’accelerazione negli anni recenti: dal 2007, le esportazioni spaziali non si sono limitate ai servizi di lancio; la Cina ha iniziato a fornire servizi “chiavi in mano”, che includevano il lancio, il satellite, il finanziamento, l’assicurazione, il segmento di terra, la formazione e il supporto operativo, si legge nello studio.

Questo le ha consentito di acquisire “una forte posizione negoziale e di controllo sulle scelte politiche ed economiche” di Paesi in stato di inferiorità come Algeria, Argentina, Bielorussia, Bolivia, Egitto, Etiopia, Laos, Indonesia, Nigeria, Pakistan, Arabia Saudita, Sri Lanka, Sudan, Turchia e Venezuela. Oggi la Cina produce molti dei loro satelliti, sia per le comunicazioni che per il telerilevamento, e ha iniziato a vendere anche dati e servizi.

Il colonialismo dei dati

Questo “corridoio di informazione spaziale” (Space Information Corridor, sic!) riguarda anche l’esportazione di servizi come remote sensing, comunicazioni satellitari e applicazioni di navigazione.
Lo scambio di dati in tempo reale senza soluzione di continuità – l’abbinamento delle esportazioni di satelliti con software e sistemi terrestri proprietari – è funzionale. “Copre già ampiamente l’emisfero orientale e Pechino promuove attivamente sia l’accesso ai suoi servizi che la vendita di sistemi ai Paesi che aderiscono alla Belt and road Initiative: con sistemi di remote sensing come Fengyun e Gaofen, che forniscono dati meteo e agricoli. Oppure con il sistema di navigazione BeiDou, che ora vanta oltre 45 satelliti – più di Gps, Glonass o Galileo – ed è una pietra miliare della presenza cinese in molti Paesi, tra cui Algeria, Pakistan e Cambogia” afferma la Csf.

Il nascente operatore della megacostellazione a banda larga, SpaceSail, un’azienda sostenuta dal governo municipale di Shanghai, ha firmato protocolli d’intesa con Brasile, Malesia e Tailandia, e ha aperto una filiale in Kazakistan. Nel frattempo, Ada Space ha accolto delegazioni di Emirati Arabi Uniti e Malesia per discutere della partnership e dell’utilizzo della costellazione di calcolo spaziale cui l’azienda sta contribuendo, chiamata “Threebody”.
Oltre a vendere satelliti e dati, gli ingegneri cinesi garantiscono il supporto dei colleghi locali e degli operatori. A questo si aggiungono le stazioni di terra “esportate” in quegli stessi Paesi. Il conteggio ne posiziona due in Algeria, due in Bolivia, una in Etiopia, tre in Indonesia, una nel Laos e in Nigeria, quattro in Pakistan, due in Venezuela e una a Minsk, in Bielorussia (a un centinaio di chilometri dal confine con la Lituania, zona strategica alle frontiere con l’Europa dell’Unione e nodale per il conflitto in Ucraina che potrebbe presto allargarsi). Sono le torri di una “supervisione” cinese in stati pressoché nuovi a esperienze extra atmosferiche, senza contare che gli interessi economici e geopolitici di quei Paesi comprendono uno spettro molto più ampio di quello delle operazioni spaziali.

Tiangong, sarà la nuova Iss?

Anche l’altro colosso spaziale, la Russia, ha rafforzato la cooperazione con la Cina, in opposizione a un “ordine mondiale a guida americana” oltre il cielo.
Per di più, negli anni in cui la Stazione spaziale internazionale si avvia al pensionamento, la Tiangong si appresta a diventare l’unico avamposto umano istituzionale in orbita terrestre. L’Occidente, infatti, si affiderà ai privati.
Vero, l’India e la Russia progettano una stazione propria, ma quella cinese ha già iniziato ad attrarre interessi da ogni parte del mondo. “L’assenza di un successore guidato dagli Stati Uniti lascerebbe alla comunità scientifica internazionale poca scelta se non quella di rivolgersi alla piattaforma cinese” è la preoccupazione della Csf, che però, proprio dalle ceneri della Iss e con alcuni dei suoi membri, sta per raccogliere il testimone.

La Tiangong ospita o ha ospitato esperimenti scientifici da numerosi Paesi alleati degli Stati Uniti (tra cui diversi europei come Italia, Belgio, Germania, Norvegia e la stessa Esa). Vengono citati Memorandum per l’addestramento di astronauti europei e possibilità di missioni congiunte, proprio a bordo del “Palazzo celeste” del Dragone (Samantha Cristoforetti studiava cinese proprio a questo scopo), siglati però diversi anni fa e finiti su un binario morto per le pressioni statunitensi.

Dalla geopolitica alla selenopolitica

La corsa alla Luna è, come anticipato, parte importante dello scenario.
Gli accordi Artemis, un “trattato” che fa da ombrello all’esplorazione lunare guidata dagli Usa, hanno raccolto l’adesione di 56 sottoscrittori. In competizione col programma occidentale, sono invece 13 (Venezuela, Bielorussia, Pakistan, Azerbaigian, Sudafrica, Egitto, Nicaragua, Thailandia, Serbia, Kazakistan e Senegal) i Paesi pronti a collaborare alla International Lunar Research Station che Pechino promette di posizionare entro il 2035 sul suolo selenico.
Il cambio di strategia imposto dalla nuova amministrazione americana potrebbe portare a una polarizzazione più accesa tra i due blocchi e a uno schieramento più deciso.
Giova ribadire l’ovvio: nel decennio più recente, la Cina ha investito nello spazio tra gli 85 e i 95 miliardi di dollari, una ventina nel solo 2024. Gli Stati Uniti sono attorno ai 60 nel solo 2025.

Il fatto sembra però non tranquillizzare la Csf: gli Stati Uniti e i loro alleati sanno bene che la Cina vanta ancora molte carte da giocare, sia al suo interno, con un settore spaziale, pubblico e privato, davvero rampante; sia nell’esplorazione dello spazio profondo; sia attraverso un paziente lavoro di diplomazia e posizionamento internazionale, in Paesi (come quelli africani) dove scarseggiano le risorse economiche, ma quelle naturali abbondano. Sono tavoli in cui, almeno finora, Pechino ha sempre avuto una mano vincente.



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