Chi primo arriva. La Cina e gli Stati Uniti verso la Luna
- September 4, 2025
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- Category: Emilio Cozzi

Pechino annuncia di anticipare i tempi. Washington ha poche certezze. In ballo non ci sono solo un primato e il prestigio, ma la possibilità di dare le carte nella prossima partita extraterrestre.
DI EMILIO COZZI e MATTEO MARINI
La strada per la Luna non è mai stata così affollata. Dopo decenni di silenzio interrotti da qualche esperimento sporadico, negli anni recenti il nostro satellite naturale è tornato al centro dell’attenzione mondiale. E mentre la prima corsa lunare, quella degli anni Sessanta, era una sfida ideologica tra due superpotenze, oggi si sta configurando come un affare globale, frammentato, competitivo. E, soprattutto, molto più complesso. Perché dietro ogni lander non c’è solo un esperimento scientifico, ma una rete di interessi economici, alleanze strategiche, ambizioni industriali e potenzialità militari. I protagonisti sono ancora una volta Occidente e Oriente, con la Cina al posto dell’Unione sovietica.
Per fare solo qualche esempio dell’interesse che gravita là attorno, il Giappone ha scritto una pagina importante con la missione Slim, che ha dimostrato per la prima volta la capacità di atterrare sulla superficie lunare con precisione quasi chirurgica. La sonda giapponese è arrivata a pochi metri dal punto prestabilito, un dettaglio che in un ambiente ostile e disomogeneo come quello selenico non è secondario. Nel frattempo, l’India ha portato a termine con successo la missione Chandrayaan-3, centrando un allunaggio nella regione del polo sud, un’area di enorme interesse per la possibile presenza di ghiaccio d’acqua. Il traguardo ha avuto un’eco anche simbolica: l’India è diventata la prima nazione a raggiungere quella zona, dimostrando capacità tecnologiche da “major space power”.
Le incertezze degli Stati Uniti
Gli Stati Uniti, dal canto loro, seguono una strategia inedita: invece di realizzare ogni missione limitandosi al contesto istituzionale, hanno lanciato un programma — il Clps, Commercial lunar payload services — che coinvolge aziende private. Tra queste, merita una menzione Firefly Aerospace, che ha portato il suo lander Blue Ghost a posarsi sul suolo lunare: la prima missione privata a raggiungere questo traguardo.
A bordo aveva anche il payload LuGRE, sviluppato dall’Agenzia spaziale italiana e da Qascom, che ha testato con successo la possibilità di una localizzazione satellitare intorno alla Luna sfruttando addirittura il segnale dei satelliti Gnss (Gps e Galileo in particolare). Una tessera tricolore nel grande puzzle selenico.
Washington frattanto procede con il programma “madre” Artemis, che però tradisce incertezze legate alle decisioni dell’amministrazione Trump e non viaggia in maniera lineare: dopo una proposta di budget Nasa espressa dalla presidenza, che proponeva tagli importanti al sistema di trasporto, lo Space Launch System (Sls), alla relativa capsula per equipaggio, la Orion (in cui è coinvolta anche l’Europa), e alla stazione spaziale in orbita lunare, il Gateway, alla quale il contributo europeo e italiano sono cruciali, lo stesso governo ha fatto marcia indietro. Il Big Beautiful Bill Act ha infatti stanziato 10 miliardi per supportare i progetti minacciati dalla cancellazione.
Il risultato, di cui è ancora lontana la definizione, ribadisce che gli Stati Uniti non sappiano ancora in che modo riporteranno astronauti sulla Luna. Sls e Orion consentono infatti un doppio approccio. Quello che utilizza un lander “classico”, sull’esempio di quello che sta progettando Blue Origin, con quattro zampe; o quello di SpaceX, con una navetta riutilizzabile che atterra e riparte verticalmente.
In entrambi i casi, l’architettura del viaggio prevede ancora un trasbordo dalla Orion (con la quale gli astronauti dovrebbero decollare da Cape Canaveral in testa a un Sls) al modulo per scendere sulla Luna. Dapprincipio, l’intenzione della Casa Bianca era di abbandonare al più presto questo modo per sfruttare un veicolo privato. Di cui Starship rappresenta il primo candidato: i progressi dell’astronave di Musk, anche dopo l’ultimo test riuscito di agosto, sono lenti e incerti. Starship non è nemmeno entrata in orbita ed è evidente richieda ancora molto lavoro. Sebbene non sia ufficiale, sembra difficile che si possa approntare una spedizione umana per il 2027. La fine del decennio, quindi entro il 2030, rappresenta una previsione più solida.
La Cina stregata dalla Luna, “giardino cinese”
A oggi, è la Cina ad aver segnato forse i punti più significativi: nel 2024, la missione Chang’e-6, completata a giugno, ha raggiunto e raccolto campioni dal lato nascosto della Luna, dimostrando una padronanza tecnologica sempre più raffinata. In silenzio, ma con determinazione, Pechino si sta assicurando un ruolo centrale nella futura economia lunare.
E ha accelerato. Parecchio: di recente ha testato per la prima volta il sistema di escape flight (che garantisce il distacco in emergenza nei momenti successivi al lancio) per quella che dovrebbe essere la capsula dedicata al trasporto dei taikonauti verso l’orbita selenica. Pechino ha dichiarato di voler anticipare il debutto del Lunga Marcia 10 dal 2027 al 2026, anche se con una configurazione più “leggera”. È una versione aggiornata del 5 e, a pieno regime, può portare 70 tonnellate in orbita bassa e 27 sull’orbita di trasferimento per la Luna. Prestazioni paragonabili a quelle di Starship.
Le ambizioni della Cina sono di battere sul tempo gli Stati Uniti. Obiettivo: allunare in occasione dell’ottantesimo anniversario della Rivoluzione cinese, nel 2029.
“Dopo che i nostri astronauti avranno raggiunto la Luna, la nostra gente si trasferirà e vivrà lì prima o poi. Chiacchiereremo e ci divertiremo sulla Luna, trattando quel posto come il nostro giardino di casa” sono le euforiche previsioni della stampa locale. Da notare: mentre Pechino dichiara di voler accorciare i tempi, l’America li dilata. L’intenzione originaria era di far sbarcare “la prima donna e la prima persona di colore” (cit.) sulla Luna entro il 2024: tre propositi tutti smentiti dai fatti e dalle intenzioni della nuova amministrazione.
Chi primo arriva
Alla base del crescente fermento non c’è solo la scienza. Certo, gli obiettivi di ricerca sono rilevanti, ma il polo sud lunare potrebbe contenere riserve di ghiaccio d’acqua utili per produrre propellente e supportare i futuri insediamenti umani, nonché elementi preziosi per le tecnologie terrestri. La Luna è anche, e soprattutto, una piattaforma strategica, un potenziale hub per missioni più lontane, come quelle verso Marte, e un simbolo geopolitico potente. La presenza fisica nello spazio, oggi più che mai, equivale a potere. Essere lì significa contare, dettare le regole, stabilire standard tecnologici, esercitare influenza.
In questo contesto, si stanno delineando blocchi di alleanze molto chiari: da una parte c’è un’aggregazione “americana”, strutturata attorno agli Artemis Accords, principi di comportamento internazionali promossi dalla Nasa e sottoscritti da più di cinquanta Paesi, tra cui Italia, Giappone, Regno Unito, Australia e gran parte dell’Europa. Questo quadro normativo supporta il programma Artemis, che punta a riportare esseri umani sulla Luna e a costruire un insediamento stabile attraverso la stazione orbitale Lunar Gateway. Le prossime tappe includono Artemis II, che porterà astronauti in orbita lunare, e Artemis III, che dovrebbe realizzare il tanto agognato ritorno sulla superficie.
Dall’altra parte si muove il blocco sino-russo, che ha annunciato la Ilrs (International Lunar Research Station), una base scientifica automatizzata da realizzare entro il 2035 con il supporto di Paesi asiatici, africani e sudamericani, come Pakistan, Venezuela e Sud Africa. L’alleanza si propone come alternativa all’egemonia statunitense, ma risponde a logiche simili: costruire capacità tecnologica, rafforzare partnership strategiche, occupare uno spazio — fisico e politico — in un territorio ancora orfano di sovrani.
Nel mezzo si muovono attori come l’India, che preferisce una posizione di equidistanza, collaborando con la Nasa ma senza legarsi troppo, e Paesi come gli Emirati Arabi Uniti, che stanno investendo per diventare un hub globale dello spazio commerciale.
Follow the money
La Luna rappresenta anche una questione economica. Portarci qualcosa costa molto: secondo le stime, il solo programma Artemis potrebbe superare i novanta miliardi di dollari entro la fine del 2026. Tuttavia, la novità degli anni recenti è che lo spazio non è più un affare esclusivamente pubblico. Con il Clps, la Nasa ha adottato un modello “as a service”, affidando a privati compiti operativi come il trasporto di payload scientifici. Le aziende americane come Astrobotic, Intuitive Machines e Firefly Aerospace sono diventate partner attivi dell’esplorazione selenica, abbattendo i costi e moltiplicando le opportunità.
Anche l’Europa sta muovendo i primi passi in questa direzione. L’Esa, l’Agenzia spaziale continentale, ha in cantiere il lander Argonaut e la missione Lunar Pathfinder, una sorta di primo nodo di telecomunicazioni in orbita lunare che vedrà la partecipazione di industrie italiane come Telespazio, Airbus Italia e Qascom. L’idea è costruire capacità autonome, per non restare esclusi da un’economia emergente che — per quanto ancora embrionale — potrebbe valere miliardi nell’imminente futuro.
Rimane una domanda, per molti aspetti cruciale: si può davvero parlare di “economia lunare”? Al momento il ritorno economico diretto è limitato. Le risorse del suolo lunare, come l’acqua o la regolite, sono interessanti ma ancora troppo complesse da estrarre e trasformare in valore. Il turismo selenico è ben lontano dalla realtà (basti da esempio la missione DearMoon, acquistata dal miliardario giapponese Yusaku Maezawa e poi annullata).
Le opportunità vere, oggi, sono nello sviluppo di infrastrutture critiche: telecomunicazioni, navigazione, logistica, intelligenza artificiale per ambienti estremi. Chi investe adesso lo fa con un orizzonte lungo, cercando di posizionarsi in un mercato che non esiste ancora, ma che un giorno potrebbe diventare fondamentale.
Follow the law
Non secondaria è anche la questione del diritto. Il Trattato dello Spazio del 1967 stabilisce che nessun Paese può rivendicare la sovranità su un corpo celeste. Nei fatti, però, chi atterra per primo, e installa sensori, robot e strumenti, tenderà a considerare quell’area come propria.
Gli Artemis Accords introducono il concetto di “zone di sicurezza” attorno agli avamposti: aree di rispetto, in teoria non sovrane, ma che funzionano come spazi esclusivi. La Cina e la Russia non le riconoscono.
Detto altrimenti, oggi non esiste alcun organismo internazionale in grado di gestire contenziosi o regolare gli usi concorrenti di una stessa zona. È il rischio di una “lawfare” extraterrestre: uno scontro giuridico, non ancora militare, che tuttavia potrebbe avere conseguenze significative e durature.
La Luna è un campo di prova. Rappresenta il riflesso delle nostre dinamiche terrestri: competizione, diplomazia, affari, tecnologia, diritto. Ma può diventare anche qualcosa di più: un laboratorio dove testare nuovi modelli di cooperazione oppure, al contrario, un teatro dove si intensificano le tensioni tra blocchi.
Di certo c’è che siamo già dentro la seconda corsa lunare, con regole nuove e attori diversi.Resta da capire chi ci resterà davvero. E a quali condizioni.