Golden Dome: o come gli Stati Uniti si preparano alle guerre stellari
- April 25, 2025
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- Category: Emilio Cozzi

Armare lo spazio per difendersi con capacità inesistenti all’epoca dello scudo di Ronald Reagan. Da Lockheed Martin a SpaceX – che però nega – un “sistema di sistemi” da centinaia di miliardi.
DI EMILIO COZZI
All’inizio la Casa bianca lo aveva chiamato “Iron Dome for America”, salvo poi cambiargli nome per non creare confusione con lo scudo anti missile israeliano.
Quello americano sarà più ambizioso, perché proteggere tutto il territorio statunitense contro attacchi da potenze nemiche: missili balistici, ipersonici, da crociera. In più sarà basato su una nuova infrastruttura spaziale, in grado di rilevare e intercettare minacce anche lontano dal territorio nazionale.
Oggi si chiama “Golden Dome”, un nome di per sé capace di alzare le aspettative e testimoniare la spesa necessaria per costruirlo, si stima di centinaia di miliardi di dollari. Quello che non è cambiato è il suo valore simbolico nella narrazione che Donald Trump porta avanti da prima di tornare a essere presidente: l’America è accerchiata e si deve difendere. Almeno per questo aspetto – non per quanto concerne i dettagli tecnici del sistema – il parallelismo evocato inizialmente con Israele è significativo (non è questa la sede per rimarcare le differenze tra un piccolo Stato incastonato nel Vicino Oriente e un territorio protetto da due oceani e con due confinanti, Canada e Messico, che non rappresentano una minaccia nucleare).
Lo scudo voluto da Trump
Il 27 gennaio 2025, la Casa Bianca ha firmato un ordine esecutivo destinato a rilanciare con forza la difesa antimissilistica statunitense. Sebbene possa sembrare anche un omaggio al passato, lo sguardo è fisso su un futuro in cui la supremazia tecnologica e la sicurezza nazionale passano dallo spazio.
Il paragone con la Strategic Defense Initiative di Ronald Reagan è inevitabile: oggi come allora, quando il sistema reaganiano venne soprannominato “Star Wars”, si punta su tecnologie all’avanguardia, su una visione futuribile della difesa e su una forte componente ideologica. Ma mentre negli anni 80 era la Guerra fredda a orientare l’agenda internazionale, oggi il contesto è multipolare e più fluido: le minacce possono arrivare dagli “Stati canaglia”, da gruppi non statali e da cyber-attacchi mirati. Per quanto, andrebbe ricordato, nessuno, tra gli antagonisti, possiede le tecnologie balistiche per arrivare a colpire gli Stati Uniti fatta eccezione per la Russia, la Cina e, forse, l’Iran e la Corea del Nord.
Tuttavia, con un’instabilità che rischia di collassare in una escalation esiziale, dai confini orientali dell’Europa all’Iran, con gli interessi commerciali e militari della Cina in gran parte del Sudest asiatico, uno scudo tecnologico superiore a qualsiasi altro sistema difensivo fin qui concepito è considerato un passo fondamentale per la sicurezza del territorio statunitense.
In questo momento, per prevenire e contrastare minacce che arrivino dal cielo, è dal cielo che il monitoraggio deve essere garantito. E per due motivi principali: l’orizzonte più ampio di cui godono i satelliti, e la capacità di osservare chiunque senza violarne i confini, sorvolando anche i Paesi considerati nemici e ostili.
Con una novità rilevante: anche gli asset orbitali possono essere presi di mira. Un’eventualità che il piano Golded Dome considera.
Cosa chiede la Casa Bianca
In sintesi: Golden Dome sarà uno scudo missilistico contro attacchi da potenze straniere – “da missili balistici, ipersonici, da crociera avanzati e da altri attacchi aerei di nuova generazione” – che prevede il dispiegamento di una rete di sensori spaziali; consentirà di sviluppare e dispiegare intercettori spaziali e non spaziali in grado di intercettare minacce anche prima del lancio e in fase boost (cioè quando i missili balistici sono ancora in ascesa o accelerazione), con un ulteriore “layer”, un livello di protezione come sistema di difesa della costellazione stessa; implicherà capacità di intercettazione capace di proteggere da un attacco città e obiettivi non militari; e capacità di difesa “non cinetiche”, cioè con armi come i laser o il jamming, per neutralizzare gli attacchi. Sarà basato su una catena di rifornimenti sicura e resiliente.
Detto altrimenti, si tratta di dispiegare più livelli di sicurezza, un’integrazione tra asset spaziali (sorveglianza e armamenti piazzati in orbita con centinaia di satelliti), radar e armamenti terrestri. Un recente scoop di Reuters ha svelato il, o meglio i favoriti, nella competizione per fornire questo sistema al Dipartimento della Difesa americano: in pole position ci sarebbe un consorzio costituito a dicembre 2024 da SpaceX, Palantir e Anduril.
Elon Musk e gli altri
Secondo Reuters, SpaceX, il produttore di software Palantir e il costruttore di droni Anduril avrebbero presentato un piano che prevede un sistema costituito da 400 a più di mille satelliti per rilevare il decollo e i movimenti di missili, oltre a una flotta separata di 200 satelliti armati di proiettili o laser per intercettare gli asset nemici. “Secondo le fonti – specifica l’agenzia di stampa – SpaceX non dovrebbe essere coinvolta nell’armare dei satelliti“.
Si andrebbero comunque a integrare le capacità di produzione di apparati satellitari dell’azienda di Elon Musk con l’Intelligenza artificiale e i software sviluppati da Palantir e con il know-how nel settore degli armamenti garantito da Anduril. Così costituito, il consorzio possiede ciò che in pochi altri hanno: grazie a SpaceX la capacità di costruire apparati satellitari a costi concorrenziali, perché prodotti in serie (lo fa già con Starlink), e quella di inserli in orbita con tempistiche rapide grazie ai Falcon 9, a Heavy o Starship – che una volta a regime potrà trasportare più di qualsiasi altro vettore, così da poter dispiegare un’intera costellazione con tempi impossibili per qualsiasi competitor.
Reuter non dimentica di notare che tutte e tre le aziende sono state fondate da grandi sostenitori politici di Donald Trump – e nel caso di Palantir, da Peter Thiel, uomo fortemente legato al vicepresidente James David Vance.
È però Elon Musk quello che ha donato più di un quarto di miliardo di dollari per contribuire alla rielezione del presidente, e che oggi è un consigliere speciale deputato a tagliare la spesa pubblica attraverso il Doge, il Dipartimento per l’efficienza governativa. Un jolly in mano a questa alleanza non sfuggito a nessuno, nonostante Musk si sia premurato di annunciare pubblicamente il proprio disinteresse per il progetto.
Impossibile dire se l’imprenditore dica il vero o se, la sua, sia solo “pre-tattica”. Anche perché di compagnie e attori interessati ai contratti di Golden Dome ce ne sono più di 180, sostengono le fonti di Reuters in seno all’amministrazione.
Lockheed Martin ha creato una pagina web per pubblicizzare il proprio impegno su Golden Dome, e nel frattempo già lavora a una costellazione di comunicazione e tracciamento di minacce dall’orbita, la Proliferated Warfighter Space Architecture, per la Space development agency del Dipartimento della Difesa. Programma a cui partecipa anche Northrop Grumman.
C’è da aspettarsi che alla realizzazione del Golden Dome siano interessati altri colossi come Boeing o Raytheon Technologies (Rtx). Reuters cita anche alcune startup: Epirus, Ursa Major e Armada.
I dettagli ancora scarseggiano, a cominciare da quelli relativi al tipo di contributo che potrebbe dare ciascuna delle realtà che stanno già proponendosi alla Casa Bianca.
A smontare un’operazione di branding appena nata, ha di recente pensato il generale Chance Saltzman, capo delle operazioni spaziali: “Non si tratta di un sistema. Non ci sarà una ‘Cupola d’oro’. È un sistema di sistemi che devono funzionare insieme. Per questo non avremo un singolo veicolo di contratto. Ci saranno più programmi che verranno messi in campo per risolvere la missione contro le minacce“. Più probabile, dunque, che molte aziende concorrano ciascuna con le proprie competenze.
È tuttavia interessante notare come, riguardo all’offerta di SpaceX, riporta Reuters, si faccia riferimento a una sottoscrizione, in altri termini a un “servizio in abbonamento”. Così come già succede con i razzi o con la rete satellitare, l’hardware resterà di proprietà privata, e gli utenti, in questo caso il governo statunitense, pagheranno per l’utilizzarlo. Sarebbe un approccio già foriero di perplessità, molto vicino a quello che, de facto, ha configurato una dipendenza del governo in ambiti come il trasporto di astronauti e merci verso la Stazione spaziale internazionale, o nei servizi di connettività dall’orbita bassa (leggasi Starlink).
In gioco ci sono cifre impressionanti. Mentre secondo le stime di SpaceX citate da Reuters, “il lavoro di ingegneria e progettazione preliminare per lo strato di custodia dei satelliti costerà tra i 6 e i 10 miliardi di dollari“, l’intero progetto potrebbe valerne decine o più probabilmente centinaia.
A partire, da quanto scrive per esempio Lockheed Martin sul proprio sito, dal 2026. Un’affermazione, quest’ultima, che ribadisce quanto il gigante della difesa sia deciso a ottenere contratti.
Molto dipenderà dall’influenza di Musk su chi dovrà decidere e dalla volontà dell’Amministrazione di mantenere il controllo assoluto degli asset necessari a proteggere il cittadino americano dagli attacchi di Pechino, Mosca o Teheran.
Rispetto agli anni 80, quando dal punto di vista bellico lo spazio era considerato una regione di transito dei razzi balistici intercontinentali (voli suborbitali che sfruttano l’uscita dall’atmosfera per piombare repentinamente su target molto distanti), oggi quello extra-terrestre è un dominio operativo. In quanto tale, presidiato.
Lo sarà sempre di più, con le nuove costellazioni, come quella prevista da Golden Dome, e con quelle di altre nazioni. Dopo terra, aria, acqua e cyberspazio, le manovre per intercettare, sabotare, accecare o distruggere saranno orbitali.
Le vere Star Wars.