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Space economy 2024: in Italia cresce l’Osservazione della Terra. Ancora poca linfa alle startup

Il rapporto dell’Osservatorio del PoliMi fotografa una scena in chiaroscuro. Le imprese non spaziali sono sempre più aperte al settore, ma l’Europa dipende troppo dai fondi pubblici e i capitali di rischio nel nostro Paese non supportano le realtà emergenti. Si attendono gli effetti del Ddl spazio e di nuove politiche

DI EMILIO COZZI

La space economy cresce e crescerà, quella italiana ostenta ancora tante promesse e una nuova legge, che, si spera, darà i suoi frutti nei prossimi anni. Ma nel nostro Paese gli investimenti, il capitale di rischio, non portano ancora abbastanza linfa alle startup, che sono i germogli dell’innovazione in una foresta di sequoie. E in Europa il carburante è ancora rappresentato, e con largo distacco, dai fondi pubblici.

Il clima è tutto sommato buono, si legge nel rapporto 2024 dell’Osservatorio sulla Space economy del Politecnico di Milano. Il mercato dell’osservazione della Terra fa un balzo e ci si concentra di più sui servizi. Segno che tutto sta maturando con rapidità. Mentre le imprese “non space” guardano al settore con interesse crescente.

Le cifre ballano, sempre, quando si tratta di prendere le misure all’economia dello spazio, soprattutto a livello globale. L’incertezza deriva dalla capillarità con cui si decide di approfondire le ricadute dei dati spaziali ed etichettarli come economia generata dalle attività extra atmosferiche. Per dire, il report Novaspace, pubblicato a gennaio, stimava in 596 miliardi di dollari il settore, con una previsione di crescita fino a 944 miliardi entro il 2033. Nel mentre, sempre in riferimento al 2023, l’analisi di McKinsey & Company per il World Economic Forum segnava già 630 miliardi, con una proiezione a 1.800 nel 2035. 

Numeri che lasciano il tempo che trovano. A ben guardare, infatti, è proprio questo margine la spia che tutto sta diventando fluido, ibrido, e integrato. Non è un caso che nelle previsioni i settori trainanti siano soprattutto soluzioni nelle telecomunicazioni e nella navigazione satellitare. È un processo destinato a potenziarsi e l’analisi del PoliMi ne dà un quadro piuttosto chiaro, in particolare per quanto riguarda il nostro Paese.

C’è spazio

I dati raccolti dall’Osservatorio Space economy mostrano il quadro di un ecosistema italiano che sta maturando la consapevolezza dell’opportunità che rappresentano la svolta spaziale e digitale insieme: “Il settore spaziale assume un ruolo sempre più importante, da ambito di nicchia a comparto strategico, per lo sviluppo tecnologico ed economico anche in settori tradizionalmente distanti“, si legge.

Basti pensare che la Space Industry italiana è composta per l’89% da imprese che operano anche in altri comparti (aviazione 63%, industria metalmeccanica 44%, automobilistica 38% e Ict ed elettronica 35%). La maggior parte dichiara di aver intrapreso iniziative di innovazione, ma non esiste ancora un approccio unico e consolidato, scrivono gli esperti del Polimi. 

Crescono le aziende “non spazio” che hanno sentito parlare di business oltre l’atmosfera (ora sono l’85%, 25 punti percentuali in più rispetto all’ultima rilevazione) e aumentano anche le realtà che seguono con interesse. Tuttavia, solo il 7% delle aziende “end user”, utenti di quei dati e delle applicazioni che ne derivano, ha progetti attivi in ambito space economy. Ed è anche qui che si innesta l’ultima trasformazione in atto e ormai consolidata, nell’economia dello spazio globale.

Dall’hardware ai servizi

Si chiama servitizzazione, servitization in inglese, e le sue definizioni da varie fonti concordano più o meno tutte: si tratta dei “processi di trasformazione attraverso i quali un’azienda passa da un modello di business e da una logica incentrati sul prodotto a uno incentrato sul servizio“. L’esempio più eclatante è SpaceX, che non vende razzi, ma un servizio di trasporto alla Nasa o alla Difesa, a stati esteri e a compagnie private; in casa nostra D-Orbit fa lo stesso nell’ultimo segmento del lancio, consegnando alle proprie orbite i nanosatelliti che prende in carico. Al tempo stesso, chi costruisce ponti e produce dati nello spazio, li vende come servizi a quegli end user che dallo spazio chiedono solo il prodotto lavorato. Anche parte della strategia del gruppo Leonardo va in questo senso, ben esemplificata dal direttore della nuova divisione Spazio, Massimo Comparini, in una recente intervista a Radiocor (Sole24Ore).

Il report lo sintetizza così: “Circa il 40% delle aziende ha abbracciato o sta valutando di servitizzare i propri asset spaziali, in particolare per la gestione e la realizzazione di asset spaziali o nelle applicazioni ed elaborazioni di segnali e dati satellitari, perché una domanda in gran parte di natura istituzionale predilige soluzioni sviluppate ad-hoc e servizi customizzati“. Si parla di upstream, dunque (il complesso delle attività per arrivare e consegnare in orbita i satelliti, dal lancio al deployment) e downstream, la raccolta dei dati e l’elaborazione delle informazioni che si traducono, appunto, in servizi e applicazioni innovative, dal meteo all’agricoltura di precisione, dalla navigazione alle comunicazioni (vedi le mega costellazioni che stanno prendendo forma in orbita bassa, da Starlink a Kuiper).

Sono principalmente queste ultime due applicazioni, navigazione e comunicazione, a fare da traino per lo sfruttamento dell’orbita nei prossimi anni, specifica il rapporto. Sta però acquistando valore e importanza anche l’osservazione della Terra. Ciò che vediamo dall’alto diventa strategico per ragioni climatiche, economiche, di supporto nelle emergenze, nel controllo del territorio e in ottica militare per la Difesa. E anche in Italia la sua importanza cresce.

Osservare la Terra paga

Nel 2024 il mercato per questo tipo di applicazioni è schizzato a 290 milioni di euro, un balzo del 29% rispetto al 2023. La domanda, però, arriva soprattutto da clienti istituzionali, ben il 77%. Il settore che traina il fatturato è costituito dalla Difesa e dalla sicurezza pubblica, che nel contesto geopolitico odierno vede nel presidio orbitale un baluardo strategico, con il 30% del totale (un balzo di 20 punti).

A seguire c’è il monitoraggio ambientale e della fauna, quindi l’agricoltura, la silvicoltura e la pesca. 

L’impatto deriva soprattutto dalle risorse stanziate dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, il Pnrr. Il che, a onore del vero, non allontana i dubbi si possa trattare, soprattutto per il nostro Paese, di una bolla gonfiata da una disponibilità straordinaria di capitale. Senza esplicitarlo, il PoliMi sintetizza così: “Servirà una domanda privata per garantire la sostenibilità nel lungo periodo e non disperdere le opportunità di crescita oggi sostenute dagli investimenti Pnrr“. Per l’Italia, gran parte di questo investimento va per la costellazione di Earth observation Iride, con un budget di 1,1 miliardi affidato all’Esa e che ritorna sotto forma di commesse per le aziende nazionali.

La sfida, come si segnala da più parti tra gli addetti ai lavori, sarà l’irrobustimento delle competenze di Pmi e grandi aziende affinché poi possano competere sui mercati internazionali. In questo senso, quello rilevato dalla ricerca è un dato positivo: per elaborare i servizi, a fronte di un 75% di dati provenienti da satelliti e asset pubblici, cresce l’utilizzo di “fonti” private, perché sul mercato ci sono “esigenze che spesso l’asset pubblico da solo non è in grado di soddisfare, e che richiedono di integrare le opportunità con dati offerti da missioni commerciali“.

Nella Space Economy oggi l’Italia deve creare concrete opportunità di sviluppo a startup e Pmi, che rappresentano circa l’80% delle imprese del settore – nota Paolo Trucco, responsabile scientifico dell’Osservatorio – in più deve coinvolgere una platea sempre più ampia di potenziali utilizzatori finali, con cui sviluppare soluzioni e servizi innovativi che diano slancio a un mercato privato. Dal punto di vista legislativo, il nostro Paese è un apripista. La prima legge quadro sullo Spazio approvata alla Camera e in discussione al Senato ci pone all’avanguardia tra i grandi player globali, rafforzando il settore con il Piano nazionale per l’Economia dello spazio e il fondo pluriennale per la Space Economy. L’auspicio è che possa contribuire a supportare ulteriormente l’ecosistema dello spazio italiano, promuovendo una maggior apertura al mercato privato e nuove opportunità di sviluppo a startup e PMI innovative”.

Investimenti pubblici, l’Europa rincorre

In un contesto mondiale in cui, anche altrove, i finanziamenti pubblici sono il primo carburante delle imprese spaziali, l’Osservatorio evidenzia il gap che separa non solo l’Italia, ma il sistema europeo, rispetto alle grandi potenze del settore. Qualche esempio: “Il budget pubblico europeo per lo spazio si aggira intorno ai 13 miliardi di dollari (2023), quello statunitense 73 miliardi, mentre si prevede che la Cina superi entro il 2030 il valore attuale europeo con una spesa prevista di 20 miliardi di dollari“. 

Un sorpasso, quest’ultimo, che in realtà potrebbe essere già avvenuto. Sarà la domanda privata, in futuro, a fare la differenza. Nel frattempo, quella pubblica deve crescere perché non è possibile farne a meno. Pare di capire si tratti di una spirale che avrà, come esito positivo, l’abbattimento dei costi su scala, se andrà bene. O lo scoppio della bolla, se il sistema non maturerà.

Startup italiane, un dato allarmante

Ed è a riguardo del sistema italiano che il dossier del PoliMi si sofferma a valutare soprattutto ciò che si muove attorno alle startup. Ne emerge che l’Italia deve colmare divari anche importanti, per tenere testa non tanto a colossi come Stati Uniti o Cina (irraggiungibili per la massa critica che sono in grado di generare), ma all’interno dell’Europa, dove i capitali di rischio che finanziano startup ci vedono indietro rispetto ai concorrenti. Il Regno unito guida la classifica (244 milioni di dollari raccolti), segue la Germania (233), e il nostro Paese con 170 milioni (ma il dato conta anche un round monstre messo a segno da D-Orbit: 150 milioni, sull’opportunità di considerare D-Orbit una startup si potrebbe tuttavia discutere). poi Spagna con 167 milioni e Francia con 139 milioni di dollari. 

Il dato che appare allarmante e balza agli occhi emerge proprio da queste cifre: il round mediano in Italia si ferma a 1,58 milioni. Per Germania e Francia il valore raggiunge, rispettivamente, i 9 e i 5 milioni. Segno, si fa presente, che il sistema di finanziamento dell’ecosistema startup italiano è “concentrato su un numero limitato di imprese“. È evidente: oltre ai fondi pubblici e al Pnrr, c’è bisogno di iniezioni di fiducia e capitali di rischio.

Il contesto internazionale della Space economy è in grande fermento, con assetti geopolitici in forte mutamento: Stati Uniti e Cina confermano il loro ruolo di leader, ma nazioni emergenti come Emirati Arabi e India stanno facendo grandi passi in avanti – nota Michèle Lavagna, la responsabile scientifica dell’Osservatorio space economy – l’Europa, che vanta una tradizione di eccellenza con competenze tecniche all’avanguardia e capacità industriali di primo piano, deve identificare nuove aree di intervento per continuare ad essere competitiva a livello globale. In questo contesto, la crescita e la competitività futura della Space economy in Italia dipenderanno soprattutto dalla nostra capacità di sfruttare appieno il valore dell’eredità tecnologica e industriale per riuscire a innovare i modelli di business e i processi di filiera”.

Scrivono gli esperti del Politecnico: “Se prendiamo in esame gli investimenti raccolti dal 2016, le startup italiane hanno raccolto complessivamente 469 milioni di dollari, quelle francesi 853 milioni, quelle tedesche 677 milioni e quelle spagnole 626 milioni. Dati tutt’altro che negativi: nella media dei settori, gli investimenti italiani in startup ad alto contenuto tecnologico sono 4-5 volte più bassi di quelli francesi e tedeschi e metà di quelli spagnoli. Nella Space Economy, l’Italia mostra un gap inferiore“. Addirittura. 

Detto altrimenti l’Italia non è (ancora) un Paese per startup.



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