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L’agenda spaziale di Trump, Elon Musk e tutto il resto

Uno sguardo alle politiche che potrebbe attuare la nuova amministrazione, con la conferma di approcci già inaugurati durante il primo mandato e sfide nuove (come Marte). I dubbi dell’Europa.

DI EMILIO COZZI

La Luna, Marte, la Difesa e il business: tanta roba, ma chissà cos’altro sarebbe lecito aspettarsi dai prossimi quattro anni spaziali della seconda amministrazione Trump?

Per cominciare a rispondere, si noti che in ciascuno degli orizzonti e obiettivi menzionati, il protagonista (e in almeno un caso, solista) è uno e sempre lui: Elon Musk, il più importante supporter (ha sostenuto il 10% delle spese elettorali) e forse prossimo membro del governo repubblicano, nonché uomo più ricco sul Pianeta e titolare delle più eccezionali innovazioni oltre la sua atmosfera, almeno nei quindici anni recenti. È uno scenario che avrà ovvi riflessi per l’Europa, per gli alleati e per i rivali in tutto il globo.

La Luna e oltre

Per una analisi sintetica sul futuro della politica trumpiana extra-atmosferica – azzardare pronostici in questo settore non è quasi mai una scelta saggia – è sensato partire dai quattro anni di presidenza già consumati, dal 2016 al 2020. È il periodo in cui hanno visto la luce almeno due delle iniziative più rilevanti in altrettanti ambiti, pur molto diversi: ha preso il via il programma Artemis, destinato a consentire una presenza umana stabile sulla superficie lunare. L’allora amministratore della Nasa, Jim Bridenstine, annunciò il primo allunaggio di una donna e di una persona “di colore” (cit.); presero quindi corpo gli Artemis Accords, per una definizione comune delle attività praticabili sulla Luna, anche economico-commerciali ma sempre animate dal rispetto reciproco e dalla collaborazione internazionale.

Oggi nulla suggerisce un cambio radicale di strategia. Pur con l’incognita cruciale delle tempistiche, la Luna rimane il primo obiettivo. Che poi rappresenti la tappa obbligatoria verso Marte, questo oggi è lecito dubitarlo, come le prossime righe proveranno a chiarire.

Quando era stato formulato, nel 2017, si prevedeva un allunaggio umano nel 2024, cioè entro il termine dell’ipotetico secondo mandato in fila di Trump. Adesso il traguardo più verosimile è il febbraio del 2028, che sarà l’ultimo anno del neo presidente. Eppure, quand’anche si ritardasse fino ad allora, le cose non saranno semplici. 

Artemis 3, la missione del ritorno di un equipaggio sul suolo selenico, è ancora prevista per il 2026, ma gli analisti – e la stessa Nasa – non escludono nuovi ritardi. Eppure con Trump al comando e Musk al suo fianco, non sarebbe da escludere nemmeno un’accelerazione. Durante l’amministrazione Biden, infatti, i finanziamenti concessi alla Nasa sono stati, senza eccezione, inferiori alle richieste dell’agenzia. Uno dei più recenti ha persino portato ad annullare la spedizione del rover lunare Viper, nonostante fosse già costruito e assemblato. Un segnale palese di quanto i conti non tornassero più.

A questo punto, però, la volontà del 47° presidente degli Stati Uniti, che – doveroso ricordarlo – controlla con la maggioranza repubblicana sia Camera che Senato, potrebbe imporsi per raggiungere l’anelato traguardo e incidere il proprio nome nella storia dell’esplorazione spaziale.

Musk e Marte

Aprile 2017. Appena eletto, Donald Trump parla con l’astronauta Peggy Whitson, in quel momento a bordo della Stazione spaziale internazionale. La rende edotta circa il suo desiderio di spedire americani su Martedurante il mio primo, o al massimo secondo mandato”. Difficile stabilire quanto scherzi, o se la domanda sia ingenua, ma agli intenditori è subito chiaro che i tempi indicati non siano compatibili nemmeno con uno sbarco sulla Luna. In quel momento SpaceX non ha neanche cominciato a costruire Starship.

Oggi le sono diverse e, a tutta evidenza, la Luna e Marte non sono necessariamente lungo un unico binario. Giusto lo scorso settembre, Elon Musk ha ribadito il suo sogno supremo, tornando a parlare in pubblico del primo sbarco umano sul Pianeta rosso: “Le prime astronavi – ha detto – saranno lanciate tra due anni, quando si aprirà la prossima finestra di trasferimento Terra-Marte. Saranno prive di equipaggio, per testare l’affidabilità dell’ammartaggio senza rischi. Se gli atterraggi andranno bene, i primi voli su Marte con persone a bordo avverranno tra quattro anni”. Di nuovo, il 2028.

La prima domanda da porsi non è se ce la farà, ma se ci proverà davvero. E la risposta è “perché no?”. Una volta collaudata la Starship, nulla impedirà a SpaceX di provarci. E sebbene la realtà abbia spesso ridicolizzato le scadenze sbandierate urbi et orbi da Musk, almeno in ambito spaziale non sono molti gli obbiettivi da lui mancati. 

A proposito dei test Starship, non si dimentichino i sempre più frequenti attacchi di SpaceX alla farraginosità della Federal aviation administration e alla sua lentezza nel rilascio dei nullaosta al volo. E si consideri l’ipotesi, più volte ventilata, di includere Musk stesso nell’imminente governo Trump, con un dicastero, chiamato Doge, deputato a efficientare la pubblica amministrazione, con buona pace di chi ravvisi un conflitto di interessi grosso quanto il Super Heavy.

Tirate le somme, è legittimo aspettarsi una accelerazione nei test e nella validazione del gigantesco sistema d lancio, che una volta pronto per dirigere verso la Luna potrebbe essere utilizzato anche per raggiungere Marte. Beninteso, sono obbiettivi percorribili da SpaceX anche senza una collaborazione con la Nasa: l’azienda potrebbe inaugurare rotte verso suoli extra-terrestri per strategie e obbiettivi privati, magari per soddisfare clienti terzi.

Certo, arrivare su Marte con un equipaggio sarà tutta un’altra storia, tanto che, quelle descritte da Musk, sarebbero missioni di sola andata, o comunque a forte rischio. Cioè speculazioni, ma comunque buone per evidenziare un binomio mai visto nella storia dell’esplorazione spaziale. Cui il supporto pubblico, coadiuvato dal compiacente inquilino della Casa Bianca, darebbe una spinta vigorosa.

Come hanno fatto notare molti analisti nelle ore subito successive al martedì elettorale, oggi Trump controlla il partito molto più di otto anni fa, quando ancora doveva fronteggiare una buona parte dell’establishment repubblicano a lui ostile. Adesso potrà tirare dritto verso i propri obiettivi, forte del supporto del Congresso intero. Se i suoi scopi saranno in continuità con quelli delineati nel primo mandato (e per grande parte confermati dall’amministrazione Biden, sebbene con alcune eccezioni notevoli) la via sarà tracciata. Sia nell’esplorazione dello spazio, che per la space economy.

SpaceX, la Difesa e la ricchezza spaziale

Affari e sicurezza, si scriveva. È di Donald Trump la firma sulla direttiva che, nel 2019, istituì la Space Force, il sesto braccio delle forze armate statunitensi, proprio mentre la Nato indicava lo spazio come un “dominio operativo”.

È pressoché certo si continuerà a investire in asset e tecnologie per presidiarlo e, all’occorrenza, porsi nelle condizioni di fronteggiare (o ingaggiare) conflitti oltre l’atmosfera. In una parola, lo spazio verrà militarizzato. In questo senso, le capacità tecnologiche di SpaceX, con Musk così vicino al presidente, saranno a disposizione e, viene da pensare, costituiranno la prima scelta. È evidente sia tutto ben più complesso di così: gli Stati Uniti sono un territorio ampio con centinaia di realtà locali e aziende ben radicate nel settore spaziale. Imprese anche politicamente impossibili da ignorare. 

È perciò plausibile che tutto il settore gioverà di un nuovo boost. È nondimeno probabile che i contratti della Difesa per SpaceX, già il principale fornitore di lanci per il Pentagono, così come la costellazione di connessione satellitare Starshield, non potranno che crescere. Con Musk come braccio destro – qualcuno si è spinto a dire “socio” – rimane allora da capire quali opportunità si apriranno per aziende come, per esempio, Blue Origin o altri provider. È rimarchevole che Jeff Bezos abbia imposto al suo “Washington Post” di esimersi dal tradizionale endorsment pre voto. A oggi tutti i player di settore sono già surclassati da SpaceX, compresa la United Launch Alliance, di Lockheed Martin e Boeing, che stanno considerando di vendere l’attività a Sierra Space (lo riportava ad agosto Reuters).

Sempre dalla prima amministrazione Trump sono emerse decisioni rilevanti sull’economia spaziale privata, compresi ordini esecutivi destinati a stimolare il coinvolgimento di imprese commerciali, invitate a cercare, estrarre e sfruttare le risorse extra atmosferiche. Si parli di Luna o asteroidi, nell’Executive Order 13914 è scritto nero su bianco che i corpi celesti nello spazio profondo non costituiscano “global commons”. Scavare, portare sulla Terra e commercializzare i tesori spaziali è alla portata di chi abbia mezzi e capacità. Un approccio, a onor di precisione, inaugurato da Barack Obama, durante la cui direzione esplosero il business di SpaceX e, più in generale, il nuovo paradigma di affidamento ai privati dei servizi spaziali per il governo. Un approccio consolidato da Joe Biden.

In ogni caso – e a prescindere dal colore politico – è impossibile non ricondurre tutto alla sagoma incombente di Musk. Il destino dell’accesso a tutto ciò che si voglia fare nello spazio oggi sembra in mano sua con una prevalenza soverchiante. Non è un monopolio, ma uno strapotere che non può evitare perplessità. Rimane per di più da capire come e se avrà corso l’indagine invocata dall’attuale numero uno della Nasa, Bill Nelson, sui presunti rapporti fra Musk e Vladimir Putin. Secondo indiscrezioni rivelate a fine ottobre dal Wall Street Journal, il patron di SpaceX non avrebbe mai interrotto le sue comunicazioni personali con il presidente della Federazione Russa. Fosse confermata, sarebbe una criticità non trascurabile per il Pentagono, visto che Musk, per via della collaborazione con la Difesa, ha accesso a documenti classificati.    

Maga in space

Nella più restrittiva e pessimistica delle interpretazioni, “Make America great again” significa pensare al bene proprio e ridurre tutti gli altri a poco più che comprimari. La politica dei dazi, tutt’altro che estranea a Biden e già promessa da Trump, implicherà che le tecnologie estere faticheranno di più a varcare l’Atlantico, in particolare per quanto riguarda l’Europa, il continente più legato agli Stati Uniti per ragioni storiche, economiche e culturali, ma insieme quello con una centralità decrescente. Dalla Nato fino programmi spaziali più ambiziosi, sarà cruciale osservare quali scelte verranno fatte dalla Casa Bianca, soprattutto per quanto riguarda i programmi più costosi come Artemis e il Lunar Gateway, in cui le aziende europee (e italiane, Thales Alenia Space su tutte) vantano un ruolo di primo piano.

Altrettanto complesso è predire come avverrà la transizione dalla Stazione spaziale internazionale, altro ingente dispendio di fondi ed energie, alle stazioni commerciali. In parte già avviato, nei prossimi quattro anni il processo registrerà le sue decisioni più importanti, come quella del veicolo per portare la Iss a precipitare nel Pacifico. Cruciale sarà poi capire che piega prenderanno i rapporti con la Cina, sui quali i dazi avranno un’influenza dirimente.

Non è escluso che la competizione geopolitica possa acuirsi oltre l’atmosfera, visto che, esempio fra i tanti, anche sulla Luna gli appetiti americani e cinesi puntano ai medesimi obbiettivi, cioè ad aree circoscritte nei pressi del Polo sud. È per questo probabile che l’intesa con l’India, in funzione anti cinese, prosegua. Con la fine della collaborazione per la Stazione spaziale internazionale, è però lecito temere che il Maga sparigli, almeno parzialmente, le carte sulla tavola delle cooperazioni pacifiche in orbita e oltre. 

La sfida per l’Europa e per il Mondo

A questo punto l’Europa, come richiesto a più voci – solo ultime quelle di Draghi e Macron – dovrebbe affrontare la sfida a viso aperto e rivendicare una volta per tutte maggiore autonomia, sviluppando programmi e capacità proprie (vedi l’accesso allo spazio per gli astronauti)? Oppure sarebbe più saggio accodarsi agli interessi statunitensi, con il rischio di attendere (e perdere) altri quattro anni?

Lungi dal rispondere in queste righe, è però doveroso ricordare che per l’Agenzia spaziale europea è indispensabile il contributo della Nasa per lanciare il rover del programma ExoMars, rimasto a terra dopo l’invasione dell’Ucraina e la conseguente interruzione della collaborazione con la Russia. L’accordo esiste già, è stato firmato quest’anno, ma i cordoni della borsa li maneggia il Congresso americano. C’è anche Mars Sample Return, altro ambizioso progetto orfano di fondi adeguati. Entrambe sono avventure di esplorazione scientifica, per cercare tracce di vita passata o presente su Marte. Un ambito, quello della conquista del sapere, che l’amministrazione repubblicana ha già dimostrato di avere a cuore meno del business extra-atmosferico.

Un destino comune alla mitigazione e allo studio dei cambiamenti climatici: buona parte dell’elettorato e dell’establishment politico trumpiano fatica a riconoscere la gravità del problema e la sua relazione con l’attività antropica. Già durante il primo mandato agenzie come Nasa, Noaa (oceani e atmosfera) ed Epa (ambiente), subirono tagli consistenti a missioni e progetti per il monitoraggio del climate change. La dichiarazione del nuovo presidente, secondo il quale, con l’innalzamento dei mari causato dal global warming, “ci saranno più proprietà con vista mare” non fa ben sperare.



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