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Un’Europa divisa non conquisterà la nuova frontiera spaziale. Il rapporto Draghi

Nell’analisi presentata alla Commissione europea dall’ex presidente del Consiglio e della Bce, la dura disamina di in continente che ha perso la capacità competitiva. E che, per ritrovarla, deve puntare a un mercato unico e con leggi armoniche.

DI EMILIO COZZI

L’Europa dello spazio conta molte eccellenze e know-how di valore, ma, con l’assetto attuale, non è preparata ad affrontare le sfide della new space economy e a cogliere le opportunità che si vanno spalancando oltre l’orizzonte della rivoluzione spaziale in corso.

Non ci sono coesione, organizzazione, unità di intenti, di legislazione, di mercato.

Nella sua relazione intitolata Il futuro della competitività dell’Europa – assurta alle cronache come “rapporto Draghi” -, l’ex presidente del Consiglio italiano e della Banca centrale europea delinea lo scenario e le misure da adottare per rimanere fra le grandi potenze spaziali (con Stati Uniti, Cina e Giappone) e non procedere in coda al treno del cosiddetto new space, ormai partito con grande abbrivio. In ballo ci sono, oltre alla sovranità e alla rilevanza geopolitica, applicazioni, tecnologie e mercati nuovi. In una parola il futuro, che con sé porta farmaci e materiali innovativi, dispositivi all’avanguardia, crescita economica e sicurezza militare.

Analisi a parte, la relazione di Draghi si estende a diverse raccomandazioni, sintetizzate anche in dieci punti di riforma, tra cui quella di arrivare a un processo decisionale più accentrato, a più corposi investimenti istituzionali e a una maggiore facilità di accesso al credito per startup e Pmi. In particolare, per quanto riguarda l’Agenzia spaziale europea (l’Esa), la relazione indica come prioritario (con un orizzonte temporale breve, cioè fra uno e tre anni) l’abbandono del meccanismo del ritorno geografico, che rallenta la crescita.

In estrema sintesi, secondo Mario Draghi l’Europa dello spazio non è indipendente, non è resiliente e con l’assetto attuale è destinata a un ruolo da comprimaria. Soprattutto, sembra suggerire fra le righe, sconta un “peccato originale”: l’essere un’unione di Stati o, peggio, di Nazioni. Non una federazione. 

Tremila miliardi

A livello globale, l’economia spaziale nel 2023 ha toccato un valore di 630 miliardi di dollari ed entro il 2035 potrebbe arrivare a 1.800 miliardi, con un tasso di crescita medio del 9% annuo. Sono le stime pubblicate, qualche mese fa, da McKinsey & Company per il World Economic Forum. Sempre in tema di numeri, il rapporto non dimentica di citare anche lo European space policy institute (Espi), secondo il quale entro il 2035 la space economy potrebbe addirittura raggiungere i 3mila miliardi di dollari: l’apparente divergenza è motivata, in questo secondo caso, dall’inclusione nel computo complessivo dei settori correlati, cioè dell’“economia in senso lato in cui lo spazio svolge un ruolo abilitante fondamentale per altre industrie di base – in termini di creazione di nuovi mercati e di generazione di valore aggiunto”. Non è secondario, dato lo scenario economico, che il rapporto Draghi riconosca all’Europa capacità industriali, di progettazione e integrazione di sistemi

Una infrastruttura critica come Galileo, la costellazione più precisa al mondo per la navigazione, il posizionamento e il timing (Pnt), supporta il 10% del Pil dell’Unione, così come il 69% delle macchine agricole. Copernicus offre i dati di osservazione della Terra più completi fra quelli oggi disponibili e li declina in applicazioni strategiche come il monitoraggio ambientale e dei cambiamenti climatici, la gestione dei disastri e la sicurezza.

Il mercato dell’osservazione della Terra è guidato dagli Stati Uniti e dall’Europa, con quote di mercato rispettivamente del 42% e del 41%, si legge nel report. Che poi cita la prossima costellazione Iris², per la connettività satellitare “altamente resiliente”, a sostegno delle applicazioni governative, tra cui la sorveglianza (delle frontiere, per esempio), la gestione delle crisi (come gli aiuti umanitari) e il collegamento e la protezione di infrastrutture critiche (le comunicazioni sicure per le ambasciate dell’Unione). 

L’Europa – è la riflessione – è rimasta competitiva nonostante i finanziamenti pubblici siano di gran lunga inferiori a quelli dei concorrenti principali (Stati Uniti e Cina). La sua industria spaziale fornisce un contributo netto alla bilancia commerciale, grazie all’esportazione “a livello globale di sistemi satellitari completi, servizi di lancio, attrezzature e sottosistemi”. L’Ue è la seconda regione mondiale in quanto a capacità di attrarre investimenti in imprese del new space, sebbene dietro, e non di poco, agli Stati Uniti. Purtroppo, le note dolenti procedono da qui.

L’Europa ha perso (e sta perdendo) terreno

Si menziona anzitutto un fatto: l’Europa ha perso la leadership mondiale dei lanciatori, quella che un tempo detenevano i vettori Ariane (4 e 5) e ora è solidamente in mano a SpaceX (alla quale l’Unione si è dovuta affidare negli anni recenti, l’ultima volta poche settimane fa, a settembre, per il lancio di due satelliti Galileo). Vale lo stesso per la leadership dei satelliti geostazionari, il cui mercato, tuttavia, vive di per sé una crisi profonda. Tornando a SpaceX, Starlink sta “sconvolgendo gli operatori e i produttori di telecomunicazione europei” ricorda il report, ribadendo il ritardo europeo in questi due segmenti, accesso allo spazio e telecomunicazioni. Sono nodi cruciali.

Circa il primo, il problema è in realtà connesso alla domanda, a un mercato interno non sufficientemente ampio, come racconteranno le prossime righe.

Uno sguardo alle cifre: secondo la relazione, l’Europa rappresenta circa il 12% (5,6 miliardi di euro) del valore del mercato globale upstream, cioè hardware satellitare, servizi di lancio e gestione dei satelliti; e il 23% (83 miliardi) del mercato downstream, servizi connessi ai dati satellitari. Il mercato interno dell’Ue è relativamente esteso, ma non meno frammentato, e rappresenta il mercato principale dell’industria spaziale europea. Non manca un altro punto dolente: la dipendenza dalle importazioni di componenti elettronici di alto livello (semiconduttori) e di rivelatori. Sono elementi che hanno ridotto le vendite finali dagli 8,6 miliardi di euro nel 2021 a 8,3 miliardi nel 2022, con le principali perdite nei sistemi di lancio e nei sistemi di applicazione satellitare.

La sintesi è spietata: la redditività del settore spaziale europeo decresce rapidamente.

Spesa e difesa, non solo cifre

Anche la spesa pubblica si attesta su cifre da comprimaria, se raffrontata, di nuovo, con quella di Stati Uniti e Cina: nel 2023, l’Unione europea ha destinato alle attività spaziali 13 miliardi di dollari, poco meno di quanto impiegato dalla Cina e un quinto di quanto speso dagli Stati Uniti (73 miliardi di dollari). Per di più, mentre nei prossimi anni la spesa spaziale europea rimarrà stagnante, quella degli Stati Uniti continuerà a crescere e “si prevede che la Cina […] raggiungerà una spesa di 20 miliardi di dollari entro il 2030”.

Nel 2022, gli Stati Uniti hanno investito 37 miliardi di dollari in applicazioni spaziali per la difesa, circa il 60% della spesa per lo spazio. La spesa totale della Cina nel 2023 è stimata in quasi 14 miliardi di dollari, di cui il 62% rappresentato dal budget per lo spazio civile e il restante 38% dalla difesa. Le maggiori spese istituzionali per lo spazio negli Stati Uniti e in Cina generano un mercato più ampio per le loro aziende, che in genere applicano approcci di preferenza nazionale nell’approvvigionamento e nell’acquisto di servizi e soluzioni spaziali. L’Europa rappresenta solo il 10% dei circa 6.500 satelliti istituzionali (civili e di difesa) che si prevede verranno lanciati a livello mondiale fra il 2023 e il 2032.

Non è marginale che anche i suoi investimenti in ricerca e sviluppo siano insufficienti: tra il 2020 e il 2023, e nonostante l’attività di alcuni centri di ricerca di eccellenza sul proprio territorio, l’Ue, l’Esa e i principali Paesi nel settore (Francia, Germania, Italia, Spagna, e Regno Unito) hanno in media speso in R&D 2,8 miliardi di euro all’anno, contro i 7,3 miliardi degli Stati Uniti e i 2,3 miliardi della Cina. Una cifra che, giocoforza, l’Unione dovrà incrementare qualora punti a sviluppare capacità strategiche e a mantenere la leadership tecnologica.

A onor del vero, è un discorso già noto: fu Asd Eurospace, l’associazione che raggruppa le principali aziende europee del settore, a lamentare queste debolezze subito dopo lo Space Council, il consiglio dell’Agenzia spaziale europea e dell’Unione tenutosi lo scorso maggio. Tra i rilievi, svettava proprio lo scarso investimento da parte delle istituzioni che, storicamente, costituiscono l’impalcatura sulla quale si regge l’economia spaziale. Allo stesso modo, gli investimenti del settore Difesa sono, a un tempo, il traino del mercato e la spinta per fare ricerca e sviluppo, e non possono che derivare dal settore pubblico. Ma in un ecosistema come quello europeo, privo di una Difesa comune, è inevitabile il quadro risulti sfocato quando non incerto.

Un’Unione, non una federazione

Il raffronto più volte usato da Draghi dell’Europa con Stati Uniti e Cina mette una accanto all’altra entità politiche (ma anche culturali e sociali) molto diverse. Lamenta la frammentazione europea e la mancanza di coordinamento sugli investimenti e le missioni spaziali: è un monito ad abbandonare, per il bene comune, un sistema fatto di nazioni, ognuna con priorità, esigenze e approcci differenti (e a volte divergenti) anche oltre l’atmosfera. Per questo, accanto a Esa ed Euspa (ed Eumetsat, che il rapporto non cita), nell’allocare i fondi, ci sono gli investimenti dei singoli Stati, alcuni dei quali, come Italia, Francia e Germania, vantano agenzie spaziali autonome e con budget consistenti. Ma senza un coordinamento per un fine condiviso.

È l’Europa degli Stati, non una federazione come quella statunitense, tantomeno un Paese con un governo le cui decisioni possono essere accentrate e coordinate, come la Cina o l’India. La situazione si riflette anche su capacità e coordinamento di spesa, o sulla scalabilità delle produzioni, e ha come effetto quello di disperdere risorse e ricerca in tanti, troppi rivoli. 

Il meccanismo del georitorno alimenta questa spirale. È il principio in seno all’Agenzia spaziale europea in virtù del quale alle industrie degli Stati membri vengono assegnate commesse pari al valore del capitale investito nei progetti obbligatori dell’Esa (tolti i costi di gestione). Questo “amplifica la frammentazione della base industriale spaziale dell’Ue – si legge nel rapporto – si è dimostrato inefficace e persino controproducente (soprattutto in segmenti chiave, come i lanciatori e le telecomunicazioni spaziali). Questa politica è fonte di inefficienza economica e danneggia la competitività dell’industria spaziale europea a causa di una serie di fattori, tra cui: la formazione di reti industriali complesse e la frammentazione artificiale delle catene di approvvigionamento, indotta dall’obbligo di approvvigionarsi da specifici Paesi membri; l’inutile duplicazione di capacità in mercati relativamente piccoli; uno squilibrio tra gli attori industriali più competitivi e l’effettiva allocazione delle risorse (guidata dalla ripartizione geografica); vincoli sulla scelta dei fornitori e sull’impossibilità di cambiare fornitore in caso di prestazioni insufficienti, con un impatto sui tempi e sui costi del progetto”. 

Mercato e leggi uniche. Buy european

Affinché la situazione migliori, l’obiettivo, scrivono Draghi e il suo staff, coincide con un mercato unico dello spazio, per coordinare la spesa, armonizzare standard e requisiti di licenza. Con lui, occorre un fondo comune per le iniziative spaziali, in modo da agire come un soggetto unico per i grandi programmi del futuro. A questo scopo, si attende ed è auspicato il varo di una legge dello spazio europeo, che armonizzi i quadri regolatori nazionali. A muoversi dentro un ecosistema ottimale sarebbero a quel punto i capitali pubblici, capaci di sostenere (come accade in Usa e Cina) la domanda per le imprese fornitrici di hardware e servizi.

In altri termini, si deve puntare a un meccanismo organico, che protegga il made in Europe e promuova il buy european, cioè la declinazione continentale del gioco praticato dai “concorrenti”, forti di quella verticalità decisionale di cui l’Europa è priva. La relazione richiama in particolare normative statunitensi in materia di esportazioni, come l’International traffic in arms regulations (Itar), l’Export administration regulation (Ear) e la recente Foreign direct product rule, che salvaguardano la tecnologia americana. Per non dire del buy american, l’imposizione a fornirsi da produttori americani che limita drasticamente la partecipazione delle aziende europee al grande mercato spaziale. Al contrario, l’industria europea dipende da fornitori esteri quando si tratta di tecnologia strategica, in particolare di materie prime per componenti elettroniche. Detto altrimenti, è l’Europa a dover fare i propri interessi con una politica più protezionistica, e non i singoli Stati ognuno per sé.

In questo senso si fanno notare altre due criticità: la prima riguarda l’accesso al credito per startup e Piccole medie imprese. Ci sono iniziative di incubazione e scale-up per aiutarle a incontrare gli investitori, ma vanno rafforzate. Nel 2023, gli investimenti privati statunitensi nello spazio ammontavano a circa 4 miliardi di dollari, rispetto al miliardo di euro (1 miliardo) in Europa. Il gap di investimenti privati nel Vecchio continente è stimato in 10 miliardi di euro nel prossimo quinquennio. Rispetto agli anni precedenti, a partire dal 2023 gli investimenti privati nell’economia spaziale inizieranno peraltro a essere più selettivi e mirati, riducendo l’accesso ai finanziamenti per molti attori emergenti.

C’è ancora molto da fare, da progettare, da lavorare, per far sì che l’Europa rimanga una grande potenza spaziale, e non la somma non così (co)ordinata di potenze minori. Per questo nacquero l’Esa e, in senso più ampio, anche l’Unione europea. Viene da chiedersi, però, se e quando sarà possibile godere di una politica strategica economica comune in un settore in cui ci sono interessi industriali forti e agguerriti, come sui lanciatori e sulle tecnologie strategiche.

La strada indicata da Draghi è un auspicio, in un continente in cui ci si è fatti la guerra fino a ottant’anni fa, e in cui il nazionalismo sta tornando a condizionare, se non a orientare, le scelte di alcuni governi.Una strada che è legittimo dubitare si possa imboccare “whatever it takes”.



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