Da Polaris Dawn a Marte: così SpaceX sta creando lo spazio intensivo
- September 19, 2024
- Posted by: admin
- Category: Emilio Cozzi
La compagnia di Elon Musk ha saputo sfruttare commesse pubbliche per sviluppare tecnologie nuove, routine di produzione e un ritmo di lancio senza precedenti. Una scala orientata a Marte.
DI EMILIO COZZI
C’è un dettaglio che non sarà sfuggito ai più nella prima, storica, attività extraveicolare di due astronauti non professionisti, lo scorso 12 settembre: il miliardario, comandante della missione Polaris Dawn, Jared Isaacman, e l’ingegnera di SpaceX, Sarah Gillis, si sono issati fuori dalla capsula Crew Dragon “Resilience” appoggiandosi a un corrimano. In ossequio alla ben nota passione di Musk per Star Wars e affini, è stato battezzato “Skywalker”. In effetti Isaacman, spuntato dal boccaporto, sembrava un viandante giunto in vetta, appoggiato al parapetto di un belvedere.
Lo Skywalker è una novità introdotta per agevolare l’uscita dalla capsula attraverso un portellone originariamente concepito per l’attracco a un modulo, come quelli della Stazione spaziale internazionale, e non come uscita per un’Eva (Extra vehicular activity). È un dettaglio, forse una suggestione nemmeno cercata, ma capace di rivelare un incedere: lo sforzo di SpaceX di vendersi come servizio intensivo più che come colosso dell’hardware extra-terrestre. L’obbiettivo è scalare il business riducendo progressivamente i costi e creando necessità, domanda, mercato.
Le proiezioni dedicate al business del turismo spaziale stimano una crescita che potrebbe, dall’attuale miliardo di dollari, raggiungere i 30 miliardi nei primi anni del prossimo decennio. È presumibile che la maggior parte dei clienti potrà permettersi soprattutto viaggi suborbitali. Non è però di questo che si tratta. Non solo, almeno. SpaceX punta a creare un’industria fatta di routine, standard e protocolli collaudati. Ovviamente con tecnologie in house, quando non off-the-shelf. E lo fa, ancora una volta, vendendo un servizio a caro prezzo grazie a un monopolio de facto, per poi sviluppare il servizio successivo. È una scalata, ed è SpaceX stessa a plasmarne i gradini.
L’ascesa e l’egemonia
Uno dei rari momenti in cui Elon Musk ha avuto il fondato timore di fallire è stato dopo il terzo lancio del Falcon 1. Lo hanno raccontato Walter Isaacson nella più recente biografia dello space billionaire e il documentario Return to Space, che racconta la storia di SpaceX dagli inizi fino al ritorno a terra del primo equipaggio a bordo di una Crew Dragon, nel 2020.
Musk aveva finito i soldi; sbagliare anche il quarto lancio, dopo tre tentativi falliti di raggiungere l’orbita, avrebbe messo fine a qualsiasi ambizione di arrivare su Marte, sogno fondativo di tutta l’impresa. Furono a quel punto i due successi in fila del Falcon 1 – cofinanziati, a sorpresa, dalla autoproclamatasi “Paypal Mafia”, cioè il gruppo di imprenditori che una decina di anni prima aveva estromesso Musk dalla sua prima grande azienda proficua – ad aprire la strada dei contratti Nasa. E a inaugurare l’ascesa, a oggi pressoché ininterrotta, di SpaceX.
Prima il Commercial orbital transportation services dell’agenzia spaziale americana diede il boost per sviluppare il Falcon 9, poi il Commercial resupply services, per rifornire la Stazione spaziale internazionale, permise di sviluppare la versione cargo della capsula Dragon. Quindi, grazie al Commercial crew program, per il trasporto astronauti verso la Iss, si sviluppò Crew Dragon. La serie di programmi creò un ecosistema solido di servizi, sfruttati in primis proprio dalla Nasa e capaci, in nemmeno troppi anni, di finanziare la nascita di nuovi mezzi di trasporto. Non che SpaceX fosse l’unico attore sul proscenio, ma di certo è stato quello che ha saputo sfruttare meglio la leva pubblica per proporsi al mercato globale. Non solo istituzionale.
Oggi SpaceX, oltre a vendere i suoi servizi alla Nasa, spedisce in orbita satelliti per la Difesa statunitense a prezzi più alti rispetto al mercato. È anche questo, insieme con altri fattori non esenti da critiche, a consentirle di aggredire il mercato.
La riutilizzabilità dei primi stadi del Falcon 9 (e del Falcon heavy) ha contribuito in misura rilevante a fare la differenza. Assieme, certo, all’affidabilità. I fallimenti del Falcon 9 si contano sulle dita di una mano, mentre la frequenza dei lanci sfiora la quotidianità. Una routine, appunto.
Sono tutti tasselli di un mosaico, ognuno dei quali, isolato dagli altri, restituirebbe ben poco dell’immagine intera. Insieme, però, hanno permesso a SpaceX un salto di qualità e quantità mai visto dall’inizio dell’epoca spaziale.
Sarebbe difficile, se non impossibile, stimare quanto il boom della new space economy sia dovuto alla rivoluzione inaugurata da SpaceX ormai più di dieci anni fa; di fatto il modello di business aziendale, che soprattutto in Europa molti sostengono non essere estraneo al dumping, ha creato una domanda esponenziale che la compagnia è stata ben contenta di soddisfare. Anche perché era ed è l’unica in grado di farlo.
Un nuovo gradino da scalare
Ricapitolando, con qualche semplificazione: SpaceX ha sfruttato fondi e programmi governativi per sviluppare nuovi sistemi di lancio; continua – la legislazione glielo permette, beninteso – a vendere i suoi servizi a prezzi alti ad agenzie, enti e dipartimenti americani, per poi applicare prezzi più bassi all’estero, nel mercato globale, del quale oggi è il player di gran lunga dominante.
Il numero dei lanci annuali – 98 nel 2023, compresi i due test di Starship, 90 nel 2024 all’11 settembre – indica una produzione con quantità e ritmi senza precedenti, fatto che le consente di praticare un’economia di scala e di ridurre via via i costi di produzione. Anche questo non era mai successo nella storia dell’economia spaziale.
Non andrebbe dimenticato un altro aspetto fondamentale: SpaceX è diventata regina del servizio di connessione satellitare. Sono altri dispositivi, gli Starlink, prodotti a migliaia, in serie. E una capacità tecnologica che le è valsa un nuovo contratto per una costellazione per la connettività internet del Dipartimento della Difesa.
SpaceX non è la sola grande compagnia spaziale privata al mondo, ma è l’unica, ancora, ad aver sfruttato qualsiasi opportunità per alzare ogni volta l’asticella, per vendere servizi non di rado creati ex novo. Di fatto, generando nuova domanda da quelle stesse istituzioni che hanno contribuito a fare dell’azienda quello che è.
Una ringhiera con vista su Marte
Si torni a Isaacman e a Gillis, partiti con Scott Poteet e Anna Menon nella missione Polaris Dawn e affacciatisi sullo Skywalker. La loro extra vehicular activity, una breve (24 minuti in due) e un po’ impacciata capatina nello spazio esterno, ha avuto significati diversi. Ha scritto un record: è stata la prima Eva di una missione commerciale, operata da astronauti che hanno pagato un biglietto per stare lassù (anche se è stato Isaacman a saldare per tutti). Ha testato le nuove tute progettate dalla stessa SpaceX, un’evoluzione di quelle molto simili che indossano gli astronauti a bordo della Crew Dragon, le Iva. Quelle usate da Isaacman e Gillis, però, sono pressurizzate e assicurate con un cavo ombelicale alla capsula, da cui arrivano ossigeno, connessioni e alimentazione. Un po’ come quelle indossate da cosmonauti e astronauti durante le space walks degli albori.
SpaceX migliorerà la spacesuit grazie a questi test, quindi la produrrà in serie per i futuri servizi di trasporto ed esplorazione (sulla Luna, su Marte). E lo farà grazie alle verifiche effettuate da un cliente durante una missione finanziata perlopiù da lui (anche l’azienda di Musk ha partecipato ai costi).
Quanto è costato il tutto a Isaacman? Il prezzo complessivo di Polaris Dawn non è stato divulgato, ma una stima è possibile: il prezzo di ogni biglietto a bordo di una Dragon si aggira attorno ai 55 milioni di dollari. È probabile che il viaggio sulla Resilience, tutto compreso, abbia richiesto almeno un paio di centinaia di milioni.
Noto dapprincipio, l’obiettivo finale è Marte. Ogni gradino che Elon Musk va erigendo dopo quello appena raggiunto punta in quella direzione. Una strada che non permette di ignorare un altro tassello cruciale, l’unico, fino a qui, davvero critico: Starship. Lo sviluppo del primo sistema di lancio completamente riutilizzabile della storia costa cifre esorbitanti e non è veloce quanto previsto. Eppure, proprio a fronte dei precedenti aziendali, è possibile.
Quando Starship sarà operativa, e se i prezzi promessi da Musk diventeranno realtà (due o tre milioni per lancio, oltre 30 volte meno rispetto a un Falcon 9), il circolo virtuoso del business di SpaceX raggiungerà l’apice.
L’astronave ancora in fase di test – il prossimo è stato rinviato a novembre per l’ennesima querelle con la Federal Aviation Administration – promette una capacità di trasporto fino a un centinaio di passeggeri e un nuovo futuro non solo per il turismo, ma per il trasporto spaziale tout court. Anche senza arrivare al Pianeta rosso, sebbene nulla finora escluda ce la si possa fare, la rotta tracciata da SpaceX punta verso l’alto senza incertezze.
Nei quindici anni recenti, l’azienda ha sbagliato poco, pochissimo. E quella ringhiera ne è a suo modo un simbolo.Sembra dire: “Tenetevi forte e siate pronti a godervi il panorama”.